“Alì ha gli occhi occhi azzurri”:
il reality-film di Claudio Giovannesi

C’è poco di “cinematografico” nell’ultimo lungometraggio di Claudio Giovannesi, classe 1978, romano, giunto al terzo lavoro (La casa sulle nuvole e il doc Fratelli d’Italia) ma è proprio questa caratteristica a rendere ancor più interessante l’analisi di Alì “ha” gli occhi azzurri, titolo che rimanda immediatamente alla citazione esistenziale di Pier Paolo Pasolini, al Fiore delle mille e una notte e al suo eroe Alì, diminutivo di Aladino, figlio dell’innocenza, in cerca di riscatto in un mondo astruso, volto alla distruzione dei valori antichi, di una preistoria che non ritorna, quali il sesso e la libertà di girovagare mostrando indifesi un paio di bellissimi occhi lucidi, anche se di azzurro hanno solo le lenti a contatto.

L’Alì di Giovannesi è Nader, un sedicenne di origini egiziane. Il regista è stato attratto dal ritagliare uno spaccato di vita intorno a una scuola di Ostia che col 20% di studenti non-italiani detiene il primato nazionale. Ed è proprio la interculturalità e gli sforzi sociali che comporta, a far da sfondo al diario metropolitano di Nader e del suo miglior amico Stefano; un sodalizio che fa pensare alla fratellanza di onore degli afroamericani, nei ghetti newyorkesi descritti da Spike Lee in Fa la cosa giusta. I principi infatti sono gli stessi, quelli che dominano la strada, l’asfalto di tutte le periferie del mondo, da Napoli a Philadelphia, da New York a Marsiglia: lo slang, la droga, rapine a rancidi tabaccai e sesso scippato a prostitute disattente. Il film non ha trama e ha i tratti caratteristici del documentario nel raccontare la settimana “brava” del giovane Nader nel “ghetto” di una Ostia fredda e umida, dove l’inverno sembra essere odiato più del dovuto, soprattutto dalla numerosa comunità araba. La macchina da presa rimane incollata al protagonista quasi tutto il tempo. Nader alterna il romano con gli amici e l’arabo con la famiglia, con la quale soffre un conflitto d’identità. I genitori del ragazzo sono contrari alla relazione che il giovane intrattiene con Brigitte, la sua fidanzatina italiana. Messo alla porta dai genitori – una lezione frequente nella rigida educazione araba – Nader vagabonda, sorvegliato da un amico di famiglia, anch’esso egiziano, omosessuale e segretamente innamorato di lui. Nader quindi, alla stregua di una favola moderna, dovrà sopportare il freddo, la solitudine, la fame e la paura, nonché fuggire da nemici individuati in un gruppo di rumeni violenti e senza scrupoli, che lo accusano di aver accoltellato un loro paisà, bullo anch’esso, in un matiné discotecaro.

Il viaggio di Nader si conclude con la perdita dell’amicizia di Stefano, della fiducia della famiglia e con il proseguimento doloroso nel comprendere la propria identità. Mi preme indicare come splendida l’ultima scena, con la famiglia di Nader, riunita nel rituale della cena. Il posto di Nader vuoto. La madre in lacrime. Il padre con le mani sulla fronte mentre sugli schermi della tv scorrono le sanguinose immagini della rivolta di Piazza Tahrir a Il Cairo, nel corso della Primavera Araba; dolce e feroce metafora del tentativo di scacciare il gelido inverno dell’oppressione. Parallelamente a questa scena, il film sfuma con gli occhi in lacrime di Nader, finalmente privi dalle lenti a contatto, liberi nel loro meraviglioso marrone scur, sotto il balcone di Brigitte, come un Romeo pasoliniano senza via d’uscita.

La componente erotica del film è altissima, non per scelta del regista, ma perché è altissima la componente erotica della vita dei protagonisti. I personaggi infatti sono tutti veri, interpretano se stessi. Nader è Nader Sarhan, così come Stefano è Stefano Rabatti e anche Brigitte Abruzzesi è la vera fidanzatina di Nader. Solo Marco Conidi, figlio verace di Cinecittà, interpreta magistralmente il pompato padre di Stefano. La fotografia di Daniele Ciprì concede poca luce, eccetto che sui volti, in primo piano, a risaltare una disperata umanità. Particolarmente azzeccata la scelta di non inserire musica, per una questione di cronistoria realistica; si percepisce appena la presenza della sdolcinata lamé di Gigi D’Alessio (“Nessuno te lo ha detto mai”), di Tiziano Ferro e di Marrakech, il poeta rap delle periferie suburbane italiane, soprattutto meridionali, dove l’integrazione del mondo arabo cozza contro la bellezza e lo squallore dell’ignoranza.

Il film ha ricevuto il Premio Speciale della Giuria e il Premio alla migliore opera prima e seconda al Festival Internazionale del Film di Roma 2012. Al ritiro del premio, Nader, con la naturalezza di un Ninetto Davoli del terzo millennio ha risposto a Matthew Modine presidente di giuria e indimenticato protagonista di Full Metal Jacket di Kubrick, che insisteva nel complimentarlo: “Ma chè fai l’attore pure tu?!”.

Ignazio Gori

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