“Anime nere” di Francesco Munzi

animenereTutto parte da una bravata di un ragazzo, Leo, figlio di Luciano, un pastore di capre, e di un sud violento e vendicativo. Leo, custode di un odio bollente, distrugge con una fucilata la vetrata di un bar protetto dall’andranghetista locale. Siamo infatti ad Africo, nel grezzo sprofondo dell’Aspromonte, tra ruderi e abusivismo.

Son ben lontani i toni goliardici e caricaturali di “Qualunquemente”, dove Antonio Albanese si divertiva a impersonificare un iroso e spregiudicato bossetto locale. In “Anime nere” Francesco Munzi ci mostra la nuda e cruda realtà, senza mediazioni stereotipate, con la sanguigna immediatezza del dialetto calabro. Il gesto avventato e coraggioso di Leo, è una provocazione troppo grande e sarà causa scatenante una faida sanguinaria, che vedrà coinvolti suo padre, Luciano e i suoi due fratelli, che a Milano smistano un traffico internazionale di cocaina. “Anime nere” si snoda sia come un “romanzo criminale”, sia come un documentario sociologico, dove non trova spazio nè pietà nè alcun tipo di logica morale, se non quella che trova conforto e rivalsa nel perpetuarsi della legge del più duro, del più abile, del più spietato. Dopo la provocazione, Leo decide improvvisamente di andarsene da Africo, proprio come i suoi zii, che a Milano offrono la prospettiva di una carriera “mala”, in bilico tra la tradizione che richiama dalle viscere e un ambiente chic, fatto di accordi con i trafficanti colombiani e club di spogliarelliste. Leo si fa tentare dallo zio Luigi, ma Rocco, il terzo fratello, cerca di preservarlo il più possibile, ritardando il suo coinvolgimento nella macchina perfettamente oliata del traffico e spaccio di coca. Nel frattempo Luciano, che è il fratello maggiore, viene richiamato dal boss del clan rivale, per la bravata “insolente” di Leo. Luigi e Rocco allora si muovono da Milano verso Africo, per risolvere la delicata questione. Qui il film entra nel vivo della faida, scatenando una vendetta dopo l’altra fino ad una piccola apocalisse famigliare.

Bravissimi tutti gli attori, nell’interpretare ruoli non nuovi nell’immaginario collettivo, ma autentici nella loro spietata semplicità. In “Anime nere” urla una terra abbandonata e sporca di sangue, dove le tradizioni si intrecciano alla sopraffazione e al richiamo di una giustizia terribilmente umana. Fatale è inoltre il ruolo del destino che non lascia scampo a chi scampo non ha concesso altrui. La realtà di Africo commuove fino allo sfinimento e in un certo ambiguo senso, annichilisce e rinfranca il cuore di chi si sente immutabile ai vari risvolti della tragedia, la storia si fa giorno dopo giorno e il futuro non esiste. Francesco Munzi giunto al terzo film, avrebbe forse meritato qualcosa in più alla Mostra Cinematografica di Venezia, ma il botteghino e la critica lo sta ricambiando favorevolmente. Il suo merito è quello di aver raccontato da “straniero” la scia purulenta della ‘Ndrangheta, legata a una cultura inamovibile. Un film aperto al confronto, da cui traspare sottopelle una disperata ricerca di una luce che non c’è: la capra – allegoria “bestialis” della storia narrata – cresce finchè non viene sgozzata, pronta per essere divorata, inutile ogni gemito. Il lutto di un uomo è muto, proprio come quello delle bestie abituate a lottare dalla nascita. Omertà, soggezione, potere e rivolta, seguono lo stesso tortuoso, arido sentiero.

Il lavoro di Munzi, anche se pecca di un stile definito, è un lavoro potente, in coesione con un gruppo di attori non fini a se stessi ma pedine di una vicenda che brucia viva, e non serve nemmeno citarli uno ad uno. “Anime nere” è in definitiva un film capace di trasmettere una esperienza realmente vissuta, meta-cinematografica, dove l’immedesimazione con i personaggi ha lo stesso sapore di un processo svuotante, che prende allo stomaco e desertifica il cuore. A differenza di “Gomorra” di Garrone, “Anime nere” non è un film sul funzionamento collettivo di una società di malaffare, ma piuttosto un percorso a ritroso nella psicologia “cavernosa” di singoli individui umani, e per questo meritevole di un’analisi più intima. Munzi fornisce crude risposte a domande taciute. E’ in questo tutta l’autorità del suo cinema.

Ignazio Gori

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