Barbara Schiavulli, la reporter senza confini

«Meglio essere tra la gente, meglio raccontare quello che ti circonda senza filtri»

Giornalista di guerra in Medio Oriente, Barbara Schiavulli ha seguito molti casi tra cui il conflitto in Afghanistan, in Iraq, in Libia. Scrive per L’Espresso, Il Fatto ed è autrice di vari libri tra cui Guerra e Guerra. Nel mondo del giornalismo dove è ancora aperta la questione tra giornalista embedded (accorpato ai militari, alle autorità) e giornalista che entra nello Stato con i ribelli, con l’intervista a Barbara Schiavulli, si può acquisire più coscienza riguardo al dibattito tutto giornalistico.

Come inviata di guerra freelance, sei entrata in Libia dalla parte dei ribelli. Cosa ne pensi dell’informazione data dai giornalisti embedded? Ti è capitato di esserlo e se sì, il controllo delle informazioni da parte delle autorità locali è sempre così forte da poter paralizzare l’informazione?

«Quando si racconta un evento non c’è una sola versione, ma ci sono più punti di vista da seguire. Quando stai con i ribelli, subisci le versioni dell’autorità e non riesci a raccontarla, puoi dire quello che fanno, ma non cosa pensano. E viceversa. Se dirigessi un giornale vorrei un inviato da una parte e dall’altra per avere una visione più completa. Come reporter se devo essere embedded o stare in mezzo alla gente preferirò sempre stare in mezzo alle persone perché è il tipo di giornalismo che piace a me. Ciò non toglie che abbia raccontato i soldati italiani, americani o israeliani in talune occasioni, anche perché curare e conoscere tutti gli aspetti di una vicenda serve maggiormente per conoscerla».

Sono 545, i giornalisti uccisi dal gennaio del 2007 al dicembre del 2011, stando ai dati della Pec, Press Emblem Campaign. Perché vengono sempre più presi di mira?

«I giornalisti sono sempre morti in guerra, ma quasi sempre in modo accidentale. Saltavano su una bomba o venivano feriti in uno scontro a fuoco. Si sa sempre che può capitare perché vivi in un contesto violento. Poi c’erano i giornalisti, e di solito erano locali che venivano uccisi per il tema che seguivano, per la loro perseveranza, per il loro desiderio di libertà, per il tipo di scelta che avevano fatto, erano morti mirate. Ora i giornalisti vengono uccisi e rapiti in modo indiscriminato solo perché rappresentano una categoria. In Iraq mi sono sentita un obiettivo, sapevo di non essere completamente libera di fare il mio lavoro come volevo, perché la mia sicurezza era compromessa e non perché seguissi un progetto particolarmente fastidioso, ma solo perché ero una straniera».

Una domanda tecnica sulle attrezzature della troupe. Di solito i giornalisti vengono distinti dai soldati con elmetti differenti. Questo non vi mette in evidenza, esponendovi maggiormente a rischio?

«Ci sono momenti in cui bisogna essere evidenti, mi viene in mente la Palestina dove ci si scriveva TV e Press dappertutto perché durante gli scontri ti evitava, non sempre, di essere un bersaglio. In Iraq cerchi di dare nell’occhio il meno possibile, quindi ti vesti come la gente normale, c’erano colleghi che si compravano terribili camicie irachene e si facevano crescere la barba, io giravo velata. Quando si è con i soldati, sarebbe preferibile distinguersi, tu non sei parte degli eventi o dei protagonisti, sei un testimone e tale devi rimanere. Un po’ come i medici».

Cos’è cambiato rispetto al passato? C’è più pericolo per i giornalisti di oggi? E quali sono i presupposti per un futuro da inviato di guerra?

«C’è più pericolo per tutti, come sono aumentate le vittime civili, aumentano anche quelle dei giornalisti. Le guerre non sono più su due fronti ma sono subdole, si combattono nelle strade e nelle città, paradossalmente è più sicuro stare con i soldati che in mezzo alla gente. Per l’inviato di guerra del futuro i problemi restano quelli di sempre, aumentano invece quelli di casa. Aumentando i reporter fai da te, molti dei quali non preparatissimi perché diventano giornalisti prima ancora di aver mai scritto un pezzo. E poi le redazioni giocano al ribasso, non gli interessa la qualità quanto pagare poco, e trattano i collaboratori esterni ormai diventati pezzi fondamentali per la realizzazione di un giornale, peggio di un immigrato clandestino. Il problema è che pur di scrivere un ragazzo o una ragazza è disposto a svendersi».

Cosa consiglieresti ad un futuro inviato di guerra? Quali sono i primi passi da compiere e soprattutto, meglio essere embedded oppure no? E perché?

«Oggi come oggi consiglierei a un giovane di andarsene all’estero, dove questo mestiere ha ancora dignità, ai giornali italiani devastati dal provincialismo, non interessano i reportage, tanto che se proprio non ne possono fare a meno, piuttosto comprano servizi da altri giorni stranieri e li traducono così di levano l’imbarazzo di dover pagare qualcuno con tutto il rischio che questo comporta. Vedi la Siria. Meglio essere tra la gente, meglio raccontare quello che ti circonda senza filtri, se non si può allora essere embedded è meglio di niente ma non è così che si lavora, molti vanno con i militari solo perché è gratis».

I tuoi viaggi da inviata si concentrano nel Medio Oriente. C’è una differenza sostanziale nel trattamento, tra i vari paesi? È possibile entrare come embedded in un paese piuttosto che in un altro?

«Nei paesi non si entra embedded, si entra da giornalista libero. Si entra embedded se vai con una struttura, che sia militare o politica o militante e ti concentri su un aspetto. Quando vivevo in Israele o Palestina, un giorno sceglievi di privilegiare un lato e un giorno un altro, è stata sicuramente una scuola molto interessante. Ma se ora vado in Pakistan, chiedo il visto e ci vado per conto mio. Se vado in Afghanistan e devo scrivere, per esempio delle elezioni vado per conto mio nelle città, tra seggi, politici ed elettori, se devo raccontare i talebani, con molta cautela e ottimi traduttori vado da loro. Se devo raccontare il lavoro dei militari, vado con loro. Di sicuro non faccio come fanno diversi colleghi italiani che per raccontare le elezioni se ne stanno comodi nella base militare intervistando gli operai afgani, sarebbe come fare un reportage sulla Romania, intervistando la badante rumena di mia nonna che sta a Roma».

Sara Stefanini

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