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Il Parkour, dalla striscia di Gaza a Roma

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Lo sport delle acrobazie e del coordinamento, della follia e dell’equilibrio. Il Parkour è nato in Francia negli anni Ottanta ed è indicato come il percorso di guerra per l’addestramento militare. Il promotore, era infatti un militare francese. Diffusosi dal 2005 anche in Italia, non è ancora riconosciuto dal Coni, ma ormai tutto il mondo ne parla. Basti pensare che dal 2003 viene utilizzato anche in giochi come Tomb Raider, Prince of Persia, Assassin’s Creed.

Con lo scopo di diffondere la passione per questo sport, Roma ha ospitato 4 ragazzi provenienti dalla striscia di Gaza. Il liceo scientifico Gullace, per una mattina, è stato lo snodo di scambio sociale e sportivo tra Roma e Gaza. Il preside Marcello Greco ha approvato, così, la proposta partita dagli stessi studenti.

Dalla striscia di Gaza all’Italia, il Parkour ha portato Mohammed ed i suoi amici ad oltrepassare, per la prima volta, i confini del paese. Ma cos’è realmente il Parkour? È la capacità fisica di superare degli ostacoli, afferma Jehad Othman, il loro portavoce. Il liceo ha ospitato, lo scorso 21 febbraio, il primo gruppo arabo che porta avanti il Parkour dal 2005 e che ne hanno fatto una loro filosofia di vita che permette loro di superare ogni difficoltà. La scintilla che ha dato inizio alla loro passione è stato il film “Jump London”. Con la formazione anche gli abitanti del paese accettano questo sport mentre prima li additavano credendoli pazzi, ora cominciano a guardarli con occhi diversi. Solitamente, la mega palestra dove si allenano è un mix di luoghi dove non ci sono persone, ad esempio, cimiteri e zone liberate al confine di Gaza.

Nonostante le distanze, le barriere e le difficoltà, i ragazzi di Gaza sono riusciti a portar fuori la loro passione, che non può far altro che esser condivisa da altri giovani pur se di nazionalità diversa.

Sara Stefanini

Celio Azzurro, un asilo interculturale

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Nel cuore di Roma pulsa un cuore multietnico

L’Associazione Culturale presiede la Capitale dal 1990 e, secondo quanto sostiene il responsabile Massimo Guidotti, ancora vanta il primato sul territorio. È una realtà che cresce anno dopo anno e che contribuisce, nel suo piccolo, alla realizzazione di una rete culturale multietnica della città di Roma. Costituito e desiderato da Don Luigi di Liegro, il caleidoscopico microcosmo rappresenta una serie di flussi migratori, stratificatosi nel tessuto romano degli anni Novanta. Qui, somali, romeni, filippini, etiopi ma anche italiani, dai tre ai sei anni, convivono in un clima accogliente ed intimo. L’integrazione sulla quale punta il responsabile, non è quella stereotipata ma fondata sulla metodologia narrativa. Il modello educativo è composto inizialmente dalla conoscenza del bambino, per poi passare alla comunicazione ed infine all’accoglienza. «La cultura è sangue» asserisce Massimo Guidotti, e lavorare sulla tradizione e sulle preferenze di ciascun bambino, costituisce il punto forza di Celio Azzurro. La peculiare struttura pedagogica viene testimoniata da cartelloni appesi sulle pareti con i cibi preferiti dei bambini che non per forza devono essere in relazione al paese da dove provengono. «Noi non lavoriamo sul piatto tipico del bambino etiope, ma su ciò che il bambino preferisce. Se a lui piace la pasta al sugo, operiamo su quello». Gli insegnanti, quindi, si basano sulla storia personale del bambino, inserendola in un contesto più ampio.

Spesso i genitori si ritrovano a scuola e raccontano ai loro bambini la loro storia come se fosse una favola, con il fine di creare una commistione fra culture. Sempre più genitori italiani, tramite passaparola, scelgono Celio Azzurro per inserire sin da subito i loro figli in un contesto interculturale. Per questo motivo, Massimo Guidotti spiega le fasi di selezione dei bambini, perché non possono essere accolti tutti. Dopo ore di attenti colloqui con i genitori, stila una lista tenendo conto soprattutto della condizione economica e poi della provenienza. Esistono delle rette, ma chi non può pagare non paga o paga in parte.

Per mantenere il senso dell’attività costruttiva, gli insegnanti non sono tutti italiani. Fra loro, c’è anche una ragazza etiope, Fayo, che è tornata dopo essere stata, da piccola, una delle prime bambine ad essere accolte.

Sara Stefanini