“Cervantes, il soldato che ci insegnò a parlare” di Maria Teresa Leon Alberti

CERVANTES_Layout 1Miguel de Cervantes ebbe una vita avventurosamente incredibile, l’esistenza tragicomica di un eroe fallito, di un soldato sognatore, un Chisciotte che ha calcato il palcoscenico di un teatro terribilmente reale, dove la violenza e l’ingiustizia non hanno certo lesinato sconti. Mutilato nella cruenta battaglia di Lepanto, Cervantes finì a marcire nelle durissime prigioni algerine, poi, uscendone a stento, dovette subire tutte le frustrazioni di un matrimonio di solo interesse, prima del più classico e poetico dei tracolli economici.

Tutto questo viene malinconicamente sublimato nel mirabile Cervantes. Il soldato che ci insegnò a parlare di Maria Teresa Leòn Alberti, edito da Castelvecchi (pp 187 Euro 18,50) dove, la bella e fresca traduzione di Claudio Marrucci, ha saputo dare vitalità a un testo per la prima volta pubblicato in Italia, cardine delle vicende del riconosciuto padre del “romanzo” e, come professa il titolo, di colui che ha insegnato agli spagnoli il castigliano moderno.

aria Teresa Leòn Alberti, scrittrice e moglie del poeta Rafael Alberti, nonché sua sostenitrice politica e morale, racconta di un Cervantes amorevolmente sconsolato, beffardo riflesso del suo Chisciotte, un bardo eroicamente “passivo”, in grado di poetizzare ogni angheria e ogni sventura capitatagli, risultando alla fine quasi un “santo”, il martire penitente di un Dio minore. Il testo appare come una finta biografia, in quanto la prosa, lirica e mai noiosa – caratteristica purtroppo non rara nelle biografie – mescola abilmente il vissuto storico al non-vissuto letterario, intrecciando quasi uno schedario di personaggi sognanti, sospesi nella memoria poetica di un Cervantes attuale e redivivo. L’autrice ha scritto il libro in esilio, con un occhio addolorato alla sua Spagna, sotto la dittatura di Franco, e si nota il suo triste stato d’animo riversarsi completamente nella scrittura immaginaria, come un pentolino di pece bollente sulle pagine bianche di un diario, un libro-parafrasi di una rivelazione che l’autrice fa a se stessa, dove l’ombra di Cervantes si proietta nella coscienza della donna esaltata dalla purezza dell’animo cervantiano e dal suo profondo e ostinato senso di giustizia. Un senso di giustizia terribilmente moderno, immortale e cinico. L’animo furente della Alberti, a metà tra la pratica solitaria di Emily Dickinson e la combattività di Nilde Iotti, non si limita a raccontare l’esistenza del romanziere compatriota, ma indirettamente, attraverso di lui, sembra esaudire il suo stesso desiderio di giustizia, una giustizia postuma, germe reietto nell’animo di tutti gli spagnoli sparsi nel mondo.

Il soldato che ci insegnò a parlare è una biografia semplice e intensa allo stesso tempo, un corollario di collegamenti provati o solamente immaginati, dove prevale una forte ispirazione storica e poetica; quasi un saggio, oserei dire, sulla morale becera dell’epoca e sulla ingiustizie del destino, delle beffe metastoriche capaci di fare di un re un buffone, ma anche di un vagabondo un eroe improvvisato. Un testo pieno di passione e solitudine, la solitudine più autentica e vera, quella che predica il casuale avvicendarsi della vita, della miseria.

Ignazio Gori

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