Claudio Marrucci e il suo ultimo libro: “Ammettiamo che l’albero parli”

10389418_10206772157532782_5497330708576206788_nKaleidoscopia incontra il giovane scrittore Claudio Marrucci, all’uscita del suo ultimo libro che sta riscuotendo un notevole successo di pubblico e critica.

Qual è la tua formazione letteraria?
Sia nel mio romanzo Ammettiamo che l’albero parli (Fahrenheit 451), sia nel mio libro di poesie, Miles (Fusibilialibri), faccio riferimento almeno a tre tradizioni letterarie che mi hanno accompagnato nella mia formazione artistica e accademica: quella italiana, che ho frequentato grazie agli autori sessantenni (come Renzo Paris, Franco Cordelli, Barbara Alberti…) che mi hanno fatto scoprire i loro maestri, come Alberto Moravia (a cui è dedicato Ammettiamo che l’albero parli), Elsa Morante, Pier Paolo Pasolini, Anna Maria Ortese, Carlo Coccioli, e giù giù a ritroso da Sandro Penna fino a Scipio Slataper, Foscolo, Aretino, Petrarca; quella spagnola e ispanica che ho conosciuto di prima mano a Madrid e che mi ha fatto apprezzare il gusto per la dissonanza, la disarmonia e il disequilibrio barocco (penso a Carlos Fuentes, Juan Gelman, José Emilio Pacheco, ma anche Nicolás Guillén, Miguel Barnet, e giù fino a Miguel de Unamuno o Calderón de la Barca); e infine quella anglo-americana, conosciuta all’università con critici come Alessandro Portelli (uno dei primi professori a portare la canzone di protesta degli Stati Uniti tra i banchi dell’accademia) e che oltre a Peter Seeger, Bob Dylan e Bruce Springsteen mi ha fatto conoscere Whitman, Burroughs e Ferlinghetti, ovvero il valore dell’oralità, della corporalità della poesia e oltre a quello della performance.

Cosa spinge la generazione dei trentenni a puntare sulla letteratura? Ovvero, è puro masochismo come dicono molti o semplice nostalgia? Passione?
Il mondo negli ultimi anni si è molto impoverito. In particolare, è diminuito il tempo libero, i cosiddetti “tempi morti” nei quali uno leggeva o ascoltava musica “con attenzione”, si sono ritenuti improduttivi e quindi si è cercato di eliminarli. Del resto, le cose da fare sono aumentate ma i salari sono scesi. Eppure il nostro sistema industriale ha visto la proliferazione di offerte per il tempo libero che hanno motivato l’acquisto di costosi device (i-phone, tablet, computer, e-reader…), senza però che si proteggessero adeguatamente quei diritti d’autore che consentono la produzione proprio di quei contenuti su cui, alla fine, si regge la nostra economia e il nostro sviluppo tecnologico. In un quadro del genere, l’accesso alla cultura è di fatto libero e gratuito (anche quando uno non vorrebbe). Il profitto per gli intellettuali non viene tanto dal content ma dallo scambio di know-how (esattamente come avveniva nell’Ottocento inglese e anglo-americano). Non dico che sia una vita facile, ma al mondo d’oggi nessun posto di lavoro è più al sicuro: quando ero piccolo, mia madre voleva che facessi il dentista; oggi, però, fare il dentista non è più remunerativo come una volta… e io, almeno, sopravvivo facendo ciò che mi interessa.

Che ci sai dire a proposito del tuo ultimo libro?
Ammettiamo che l’albero parli (Fahrenheit 451) è un romanzo sull’amore e la follia. È una vera e propria discesa agli inferi, una riflessione sulla vita e sul significato dell’esistenza. È un romanzo che ha avuto una lunga gestazione… lo definisco “a lievitazione naturale”. Ammettiamo che l’albero parli può piacere o non piacere, ma al lettore dovrebbe serbare un sapore vero, autentico, genuino, “artigianale”, o almeno così dovrebbe esser parso all’editore che, appena l’ha provato ha deciso di investirci di tasca propria. In un mondo, come quello della cultura dove tutto è “libero e gratuito” (spesso persino a dispetto della volontà degli autori) la propensione al rischio è, di base, assai elevata. Eppure la qualità del romanzo sembra esser riuscita a vincere almeno le “resistenza di sistema”. Non è un caso, forse, che il romanzo, appena uscito, è stato subito premiato dalla città di Celano con il Vittoriano Esposito. Certo, un secondo posto, ma il primo è stato di Elena Stancanelli (finalista premio Strega) e il premio alla carriera è stato assegnato a Massimiliano Parente (uno dei più grandi scrittori italiani viventi). In giuria, Dante Maffia, candidato italiano al Nobel. Direi che come “anteprima dell’esordio”, ci può stare.

Cosa significa per te scrivere?
Questa domanda è difficile, come se mi chiedessi “qual è per te il senso della vita”? Ecco per me scrivere è un mistero, è avvicinarsi a un mistero, che è al contempo il mistero della vita e dell’esistenza e, insieme, il mistero della ragione e dei sentimenti. Cuore e sangue, anima e cervello, polmoni e sudore. Scrivere è come correre in bicicletta: lo fai perché lo fai e non ti chiedi perché lo fai, perché se te lo chiedi, vuol dire che non lo stai facendo. Scrivere richiede una grande disciplina e un grande rigore mentale.

Qual è stato il miglior complimento che hai ricevuto? E la peggiore critica?
Il miglior complimento l’ho avuto da un lettore che mi ha detto di aver divorato Ammettiamo che l’albero parli in un paio d’ore, ed è stato “appagato” dal testo, un “appagamento totale” per un libro che risponde ai bisogni di un prodotto culturale ”alto”. Oggi c’è una tendenza a non ricercare più le altezze, o a smorzarle nel grottesco. Io non so se, come afferma questo lettore, le ho ottenute, però nel mio piccolo ci ho provato.
Sarà per la mia formazione americana, ma per me non esistono “critiche peggiori”. Ogni critica è costruttiva, anche se il lettore che le muove, la mette sul personale. Anzi, soprattutto in quei casi. Infatti vuol dire, prima di tutto che il lettore ha speso del tempo su un mio scritto, al giorno d’oggi non c’è niente di più prezioso del proprio tempo e della propria vita; solo per questo il “lettore che critica” merita rispetto. Inoltre, più le critiche sono accanite, personali, più significa che sei riuscito a smuovergli qualcosa dentro, e quindi che, in definitiva, i tuoi scritti funzionano. Magari c’è qualcosa da correggere, magari “il lettore che critica e demolisce”, ha “persino” ragione e allora bisogna starlo a sentire, capire le sue ragioni, ma trovare noi da soli, le giuste soluzioni e i giusti equilibri. Ecco perché è importante che i romanzi abbiano una lunga gestazione, così si ha il tempo di testarli, provarli, cambiarli, ridefinirli, ricollocarli… dove sta scritto che solo gli i-phone abbiano bisogno di innovazione sviluppo e ricerca? Non bastare “dire” che un lavoro “è di qualità” perché lo sia, ma, spesso, c’è bisogno di sudore, lavoro e fatica e a. volte, anche di un pizzico di fortuna.

Come vedi il panorama letterario degli autori italiani under 35?
Tanti talenti che hanno difficoltà a emergere. Purtroppo sono proprio i più giovani a essere danneggiati dalla politica dei “cibi precotti” delle grandi case editrici. Infatti non avendo “un passato” che li difende sono completamente in balia del mercato, come succedeva ai musicisti punk negli anni 80-90. Qualcuno è bravo e ce l’ha fatta comunque, qualcun altro si perderà nel tempo. Accanto ai grandi nomi, ormai affermati, come Paolo Di Paolo, Alcide Pierantozzi, Paolo Sortino, Andrea Caterini… esistono però tantissimi giovani che, paradossalmente, proprio per il loro talento hanno più difficoltà a emergere: infatti se possiedi una voce, è difficile piegarla o far finta che non esista. Tra riviste clandestine -magari un po’ vintage-, blog, semplici pdf che girano su mail, si nasconde un sottobosco pronto a dare i suoi frutti. Cito due esempi su tutti: a Perugia, un certo David Laurenzi anima le notti della sua città con una rivista underground dal nome Flusso. È ancora inedito, ha pubblicato solo qualche racconto in antologie, ma sono certo che ne sentiremo parlare. A Grottaferrata, nei castelli romani, Andrea Appettito si appresta a pubblicare con Effige un romanzo che lascerà il segno.

Ignazio Gori

 

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