“Eisenstein in Messico” di Peter Greenaway

eisenstein in messicoIl gallese Peter Greenaway è un regista sofisticato, con una indubbia vocazione pop anni Ottanta a miscelare ecletticamente arte cinematografica con altre arti figurative o musicali; mi sono sempre chiesto infatti come Lars von Trier abbia potuto soffiargli un film come “Dancer in the dark” senza avere come tornaconto una scioccante crisi artistica. Ma debbo dire che con l’ultimo “Eisenstein in Messico” (titolo originale “Eisenstein in Guanajuato”) Greenway è riuscito ad accorpare in un caleidoscopio di colori e umori tutta la sua più provocatoria vena narrativa, tanto da poter affermare quasi con certezza che probabilmente questo è il suo lavoro più riuscito, più personale.

Il film è un tentativo in parte documentaristico (sovrapposizione di immagini di repertorio) in parte diaristico (il vero Eisenstein e il finto Eisenstein si fondono e si confondono), di raccontare il soggiorno messicano di Sergei Eisenstein nella variopinta cittadina di Guanajuato. Si tratta ovviamente di una trasposizione cinematografica basata su dati documentati, quindi reali, relativi al periodo che lo stesso regista russo definì: “i dieci giorni che sconvolsero la mia esistenza”, parafrasando il reportage dell’americano John Reed sulla Rivoluzione d’Ottobre che sconvolse la Russia. “Amo e rispetto il Messico” dichiarò Eisenstein, “perché ha avuto il coraggio di fare la Rivoluzione prima di noi.”
Dopo la sconcertante trilogia di successo mondiale, composta dalle pellicole “Sciopero” “La corazzata Potemkin” e “Ottobre”, esempi fondamentali sulla teoria del montaggio, il regista, ardente bolscevico, partì per un lunghissimo viaggio in Messico, con l’intenzione di girare un film che si doveva intitolare “Que viva Mexico”. Prima di arrivare in Messico però, è costretto a fermarsi a Los Angeles dove lo scontro con l’industria già “consumista” di Hollywood lo costringe a ritirare alcune offerte su film che lui ritiene “merda sentimentale”. (“Salvo solo Von Stroheim, “Rapacità” è un capolavoro”). Dunque Eisenstein, omosessuale represso, arriva attraverso la sabbiosa frontiera messicana nel paese di Guanajuato, dove ad attenderlo c’è la magnifica coppia, Diego Rivera-Frida Kahlo. Ha una valigia piena di materiale pornografico, disegni, riproduzioni di nudi maschili, fellatio, crocefissi blasfemi … roba da far arrossire il demonio, avrebbe detto qualcuno. È il 1931. Eisenstein è una star internazionale ma ha solo un paio di scarpe logore. Stalin è disposto a pagarli appena dodici mesi in Messico, prima di considerarlo un disertore del popolo sovietico. E’ conosciuto e rispettato dai più grandi, Brecht, Joyce, Cocteau, Greta Garbo, Walt Disney (che lui considerava “il più grande pervertito del secolo”) e naturalmente Chaplin, che appoggiava il suo progetto sul film messicano. All’inizio doveva essere solo un documentario sul Messico e la sua cultura, ma Eisenstein rimase talmente sconvolto dai paesaggi, dalla gente, dalle tradizioni … da girare quaranta km di pellicola: cimiteri sotterranei, passioni di Cristo in pieno deserto, cactus giganti con forme falliche, processioni carnevalesche con teschi parlanti, uomini-cavallo …
Nonostante l’enorme quantitativo di materiale girato con l’aiuto dei collaboratori Alexandrov e Tissè, il film non si sarebbe mai fatto, per finire assemblato postumo in una versione voluta dai produttori americani, alquanto censurata. Il regista mollò la presa, e con essa il fascino che lo aveva indissolubilmente legato al Messico (“Sono costretto ad abbandonare il Paradiso troppo presto, sono un morto vivente e morto torno a Mosca”). Fu richiamato da Stalin in persona in una patria omofoba che lo vide morire a soli cinquanta anni, nel 1948, esaurito, stremato, svuotato, offeso fino al midollo. È del 1936 la legge sul reato penale di omosessualità in Russia, che prevedeva fino a dieci anni di lavori forzati in Siberia. È incredibile infatti, ma è davvero strano come uno dei paesi più omofobi al mondo abbia i due eroi nazionali entrambi omosessuali: Cajkovskij e appunto Eisenstein; forse, è una rivalsa del destino.
“I dieci giorni che sconvolsero Eisenstein” – dal 21 al 31 ottobre del 1931 – sono il pretesto biografico per Greenaway per descrivere, come in un dipinto serpentario di Frida Kahlo, pieno di gioioso dolore, l’iniziazione sessuale di un uomo giunto ai 33 anni, “l’età della morte di Cristo, della morte di Alessandro Magno …”, inequivocabile soglia di cambiamento, di svolta esistenziale, di unione tra Eros e Thanatos. Il regista gallese spinge Eisenstein (interpretato da un bravissimo Elmer Bäck) in un angolo buio e lo ricopre di sputi, di vomito, ma anche di baci appassionati, rose rosse, carezze, tenerezze infantili. Sconvolto dall’incontro amicale e sessuale con la sua guida locale Palomino Cañedo (Alan Del Castillo), Eisenstein si confida per telefono (lunghissime chiamate nel cuore delle afose notti messicane) solo con la fidatissima assistente Pera Atasheva, rimasta a Mosca, a curare i suoi affari e a difendere la sua ambigua reputazione, in patria sempre più sulla bocca di tutti. Il film è giocato tutto sull’intreccio, nella coscienza e nel cuore del regista russo, tra Amore e Morte, sugli spartiti di una ironia nauseabonda ma acuta, sull’attaccamento alla vita, a un ozio pacifico e riempitivo. Quel che ne viene fuori è un Eisenstein in forma di bambinone, con una filosofia a metà fra Pasolini e Andy Warhol.
Greenaway fa appello – e per molti questa è una pecca – sulla biografia redatta dall’americana Marie Seaton e ad alcuni epistolari avvolti dal mistero, e secondi altri sarebbe addirittura favolistico che il suo assistente e guida Palomino Cañedo avrebbe gioiosamente iniziato Eisenstein alla sodomia e liberato dalle sue censure carnali, risultati delle rigide regole sovietiche. Ma il temporale di succose supposizioni su cui gioca Greenaway piovono sullo spettatore in un godimento di emozioni e rendono ancor più verosimile l’esperienza messicana di Eisenstein, tanto da regalare alla sua memoria un lato di umanità, di “disperata vitalità”.
Ignazio Gori

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