Errori nei conti, e i cittadini pagano
1 volta su 3 il Fisco ha incassato soldi non dovuti

L’editoriale di Diego e Dylan Cimara. Visto il periodo di crisi, quando il fisco bussa alla porta è probabile che il saldo sul conto corrente sia prossimo allo zero, se non addirittura in rosso. Del resto, Stato ed enti locali hanno pesantemente affondato le mani nelle tasche degli italiani negli scorsi mesi: dall’Imu sulle abitazioni alle accise sulla benzina alle addizionali locali sull’Irpef, di denaro ne resta sempre meno. C’è da dire poi che la cosiddetta amministrazione finanziaria è zoppicante e qualche “falla” si trova pure nell’azione, nei documenti e negli atti ufficiali degli sceriffi delle tasse, che siano funzionari dell’agenzia delle Entrate o addetti di Equitalia.

Già, perché l’ente di riscossione si può battere. C’è una lunga serie di precedenti che fa sperare: notifiche imprecise, richieste eccessive, studi di settore sballati, pignoramenti illegittimi. Gli svarioni dello Stato, insomma, non sono pochi. Può anche capitare che il calcolo degli interessi non sia corretto, oppure che le multe siano prescritte e le ganasce fiscali irregolari. E ancora, ci sono cartelle pazze con uno “zero” di troppo, oppure quelle con un codice fiscale sbagliato, insomma, l’Agenzia delle Entrate non è infallibile, così come la Guardia di Finanza o Equitalia. E visto che la nostra pubblica amministrazione non brilla, il contribuente messo al muro dal Fisco può, anzi, in moltissimi casi viene costretto ad opporre le sue motivazioni. Che, come dicono le statistiche del 2010, in molti casi risultano corrette e vincenti. La guerra però è profondamente iniqua. Il Parlamento ha permesso che lo Stato attacchi il cittadino con armi impari. Un carro armato contro una fionda. Solo l’indipendenza della giustizia può tentare di riequilibrare le cose. Tanto per cominciare il Fisco, prima di sedersi a un tavolo e ascoltare ciò che il contribuente ha da dire, pretende il pagamento delle maggiori imposte accertate, le sanzioni, gli interessi e la percentuale di Equitalia per il servizio da mastino reso.

Se poi dovesse aver ragione il contribuente, lo Stato restituirà il maltolto, ma con i tempi della giustizia che conosciamo. Applicando le statistiche del 2010 si può dire che l’amministrazione finanziaria è stata costretta a restituire 10 miliardi di euro ai contribuenti per imposte accertate e incassate in anticipo che non erano dovute. È chiaro a tutti cosa significa per un cittadino o per una ditta tirare fuori dal portafoglio un bel po’ di quattrini da aggiungere alle tasse che ha già pagato, distraendoli, nella migliore dell’ipotesi, alle altre spese a cui erano destinati. Vederseli restituire, in caso di vittoria, anni dopo è solo una magra consolazione.

Tra le principali armi di lotta che un contribuente può opporre all’amministrazione nel caso d’ingiusto accertamento, si annovera l’interpello, l’autotutela, l’accertamento con adesione, mediazione tributaria e contenzioso tributario. La prima ipotesi, è disciplinata dalla legge 413/91 e consiste nel rappresentare, in via preventiva rispetto alla realizzazione, le operazioni che il contribuente intende compiere e realizzarle solo dopo che l’amministrazione fiscale avesse dato il suo parere. Ma i tempi di risposta sono epocali, fino a 120/180 giorni. Negli altri Paesi evoluti le forme di interpello, più propriamente chiamate «ruling», consentono di instaurare un proficuo rapporto con l’amministrazione con l’intento di privilegiare non tanto «l’incremento delle basi imponibili» quanto la certezza dei rapporti fra due parti che sono sullo stesso piano, fisco e contribuenti. Ma prima ancora di instaurare il ricorso avverso un avviso di accertamento è possibile ricorrere alla cosiddetta «autotutela». Si tratta di una attività con la quale il contribuente può chiedere alla stessa amministrazione di annullare o revocare un atto ritenuto illegittimo o infondato. L’amministrazione è obbligata a rispondere ed in mancanza di risposta ciò può essere considerato come violazione del principio di buon andamento e imparzialità dell’amministrazione sanciti dall’art. 97 della Costituzione. L’accertamento con adesione fa uso di un accordo fra contribuente e fisco sulle voci dell’accertamento che, se concluso, porta ad un significativo risparmio delle sanzioni tributarie in quanto ridotte ad un terzo del minimo previsto dalle legge. Il tentativo di mediazione tributaria è possibile soltanto per gli atti emessi dall’Agenzia delle Entrate (quindi, ad esempio, non è possibile utilizzare l’istituto per gli atti emessi da Equitalia). Il problema sta nel fatto che il «mediatore» è la stessa Agenzia delle Entrate. Qualora non si raggiunga l’accordo di mediazione, oltre alle spese di giudizio, la parte soccombente verrà chiamata a pagare una somma aggiuntiva pari al 50% delle medesime spese di giudizio a titolo di rimborso spese del procedimento. Da ultimo, ma non in ordine di importanza, qualora non abbiano dato risultati positivi gli altri strumenti indicati, non resta che il contenzioso tributario. È una via che, purtroppo, non sospende la riscossione delle imposte o delle maggiori imposte dovute anche se il versamento richiesto, in caso di contenzioso, non può eccedere un terzo delle maggiori imposte accertate.

C’è poi da sottolineare che sulle somme dovute dai cittadini contribuenti o dall’Amministrazione maturano degli interessi. Anche in questo caso le posizioni non sono su un piano di parità. Infatti mentre all’amministrazione fiscale spettano tassi di interesse del 4,55% annuo per interessi di mora per il ritardato pagamento, quelli che spettano al contribuente non eccedono l’1%  semestrale. Occorre notare, infine, che sulle somme iscritte nei ruoli spettano aggi nella misura del 9% a favore di Equitalia che il decreto sulla spending review ha ridotto, all’8 per cento a partire dal 1 gennaio 2013.

Il sistema di riscossione fiscale è da riorganizzare, questo è un fatto. Passando ai contenziosi tributari, persone e imprese che portano il fisco – o chi per esso – davanti al giudice poiché si ritengono vittime d’una qualche ingiustizia o sopruso, i numeri fanno impressione. Perché i contenziosi fiscali pendenti davanti alle Commissioni tributarie – a tutto il 31 dicembre 2009 – sono più di 945mila. E già questo è un problema mica da ridere. I dati aggiornati alla fine dello scorso maggio parlano di oltre 125mila istanze di mediazione presentate, e però solo 14mila andate a buon fine. Per quanto riguarda invece i verdetti relativi ai contenziosi: il primo grado di giudizio presso la Commissione provinciale, nel 35,6% dei casi il giudice dà ragione del tutto al contribuente. Significa che 1 volta su 3 il Fisco ha cercato d’incassare dal contribuente soldi non a lui dovuti, e scusate ma – in tempi di pressione fiscale così alta – l’umore non ne giova. Senza contare che c’è un altro 25% di procedimenti in cui il magistrato propende per, diciamo così, una soluzione di compromesso. La percentuale di sentenza favorevoli al ricorrente addirittura sale – e arriva al 44,2% – nel secondo grado di giudizio, quello su cui decidono le commissioni regionali.

Diego e Dylan Cimara

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