I fantasmi di “Brown” tornano a tormentare Veneziani

antonio venezianiSono stati due i libri di poesia che negli anni ’70 hanno contribuito a donare una nuova coscienza, tremenda ma vitale, al mondo letterario: “Sonetti d’amore per King Kong” di Gino Scartaghiande (Cooperativa Scrittori, 1977) e soprattutto “Brown Sugar” di Antonio Veneziani, edito da I Quaderni di Barbablù nel 1978.

Ora, a quarant’anni dalla prima edizione, e dopo una ristampa intermedia (Castelvecchi 1998), questo “stracult” della poesia underground torna in libreria grazie ad Hacca Editore (103 pp. 14 Euro) con diciotto nuovi componimenti, una bella nota introduttiva di Nicola Lagioia e una intervista all’autore di Gabriele Galloni. A chiunque volesse avvicinarsi per la prima volta alla poesia di Veneziani, consiglio un’operazione diversa da quella della semplice lettura analitica dei testi; consiglio di portarsi il libro in tasca e leggerlo in metropolitana, tra la folla, o a notte inoltrata nei sottopassaggi dei cavalcavia, o ancora alle quattro del mattino, con gli occhi assonnati, in un bar di periferia o in una stazioncina ferroviara tra bottiglie di vetro frantumate. Consiglio insomma una immersione totale. Ma perché dico questo: perché a mio avviso ogni lettura critica del testo finirebbe per scialacquare le emozioni di vita vissuta, anzi, stra-vissuta, che hanno portato ai dolorosi gemiti della poesia di Veneziani. “Disegno nuvole sugli stivali./ Ormai invecchio al rumore/ di cinture finto cuoio./ Ho la muffa sull’anima./ Un cane mi sfiora,/mi annusa,/ vuole, forse, stanarmi dalla vita?//. Guido Ceronetti – scomparso lo scorso 13 novembre – disse di aver capito “veramente” la poesia dell’amato Constantinos Kavafis leggendo le sue poesie di notte, sotto i portici della sua Torino, rifugiandosi alla calda luce dei lampioni, nell’ombra di angiporti urbani, in piedi, pensando ad amori che sfuggivano in continuazione. Nel caso di “Brown Sugar. Strade di polvere” – sottotitolo a doppio senso – invito allo stesso tipo di lettura, volante, perfida, cruda, quasi intollerante, come gli esercizi che il poeta per anni si è inflitto nella goffa rincorsa ad una libertà tanto effimera quanto a portata di “vena”. L’esperienza dell’eroina infatti, della Morgana “brown sugar”, è stata il portale illusionistico di una intera generazione – dopo gli urli di William Burroughs, di Aldous Huxley, di Philip Dick e di Jean Genet – per scollegarsi da una realtà odiosa; è stata inoltre la “sliding door” per una dimensione corporea “perfetta”, tutt’uno con la mente. Come dice Richard Bach ne “Il Gabbiano Jonathan Livingston”: “Quei gabbiani che non hanno una meta ideale e che viaggiano solo per viaggiare, non arrivano da nessuna parte, e vanno piano. Quelli invece che aspirano alla perfezione, anche senza intraprendere alcun viaggio, arrivano dovunque, e in un baleno.”
Chi aspira alla perfezione si isola – e spesso il Poeta lo fa – cantando il proprio “blues” all’ombra delle sue paranoie. “Un tempo/ era un’isola non segnata/ nelle carte geografiche. / Era un sogno/ rapido a incenerire,/ come la gloria./ Erano sentinelle ritte/ i muri in rovina/ su un vergatino poliziesco./ Ora nel petto s’incrostano lacrime,/ ma non voglio compatirmi./ Ora si raggriccia innocente/ questa mia generazione/ sugli umidi assiti./ Ora anche la neve indietreggia/ di fronte a noi,/ animali braccati.//.
Non a caso Lagioia cita nella nota introduttiva il film “Amore tossico” come il manifesto di una generazione, quella di Veneziani, settantasettina, che pur nella disperata vitalità delle droghe e dell’anarchica trasgressione, non si è risparmiata – e in queste poesie si nota bene – un romanticismo viscerale, che lascia vivi a malapena.
Ora come ora, l’ex-voto che Veneziani ha riesumato da cataste di cicatrici, è di nuovo alla mercè di chi vuole emozionarsi per poi perdersi di nuovo. Cronista della propria solitudine, scrutatore di angoli oscuri e di vizi agro-dolci, Veneziani si mostra per quello che è. “I maestri sono fatti per essere mangiati in salsa piccante” dice sconsolato il corvo-Pasolini di “Uccellacci Uccellini”. E anche certi poeti, aggiungerei io.
Per la sua resistenza poetica alla de-poetizzazione del mondo e dell’Italia, Antonio Veneziani è un eroe del sommerso, ma non sa di esserlo. E questo è un bene.

(Ignazio Gori)

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