“Infinita nigredo” di Giuseppe Bonaccorso
Alchemiche trascendenze verso l’assoluto

Infinita nigredo di Giuseppe Bonaccorso«Poggiando i piedi sul mio inconscio, intravedo i fanali d’un Sole a batteria. La noia delle pozzanghere schizza un nuovo, indistinguibile giorno»

Una poesia essenziale, secca, fatta di singole parole che rimangono impresse nella mente. Giuseppe Bonaccorso, ingegnere ma appassionato di letteratura e poesie, è alla quarta silloge dopo Il doppio cosciente, Gocce di mercurio e Vertigini astratte dimostra come sia maturato dopo gli eventi trascorsi lungo il percorso della sua vita che l’hanno voluto di nuovo davanti a carta e penna, di notte, a scrivere di quelle emozioni che non lo lasciavano dormire. ASCOLTA IL KALEIDOAUDIO

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Ma è interessante partire dal titolo e a spiegarci il significato di “Infinita nigredo” è proprio l’autore che racconta: « la ‘nigredo’ o ‘opera la nero’ è una fase del processo alchemico che consiste nella dissoluzione di tutte le percezioni, conoscenze, emozioni, in un grande calderone al fine di iniziare un processo di raffinamento e ripulitura dal superfluo. Il titolo si rifà a questo concetto, indicando che le poesie hanno la capacità di ‘estrarre’ alcuni aspetti nascosti della mia personalità per renderli disponibili, anche se in modo spesso indistinto, ad un successivo processo di sintesi». Riflette su se stesso accompagnato dai suoi punti di sospensione, ormai caratteristica peculiare del suo stile. In più titolo e sottotitolo sono rimasti tipici segni della sua poesia, come se ognuna fosse un dipinto a sé, introdotto anche da citazioni di illustri come Kant o prendendo qualche verso di un Vangelo che fa da prefazione.

Racconta di nostalgie di bambino e lascia pensare ad un’infanzia negata. È misterioso l’autore di Infinita nigredo, le cui parole chiave sono “notte”, “vuoto”, “noia”, “freddo”.  La notte è la sua migliore amica come se solo durante quelle ore riuscisse a provare sollievo. E insieme a lei l’inverno che “mi esalta quando violenta le onde”. Se ama la notte, di contrario, il sole “mi rende triste”. Una poesia decadente che sfocia nel pessimismo profondo, il poeta è disilluso dall’ipocrisia della società e continua spavaldo a manifestare la sua anima “in questo vuoto inodore”. Lo dice lui stesso avvertendo il lettore: “non scrivo ciò che allieta”.

Nonostante la nota dimestichezza con i versi, l’”osservatore della notte” rimane criptico quasi come se volesse esprimersi ma senza lasciar trapelare troppo di sé. Una cosa è certa. Talmente astratte sono, a volte, le sue parole che lasciano libero arbitrio al lettore che trova i suoi significati, distogliendolo dal senso vero della poesia. Ma forse, è proprio quello l’intento del poeta, in fondo, non vuole che si sappia cosa prova realmente dentro di sé.

Gioca con i tempi dei verbi, usa i ritornelli come se fossero nenie e dipinge immagini mentali raccapriccianti come “la mia barba come rami sfilacciati”, “ricordi sbriciolati” o “ho masticato spilli”. Il suo stile è inconfondibile anche perché ha la capacità di scrivere aulico e poetico e poi, con un oggetto o con una espressione, riesce a piombare improvvisamente nella realtà con qualche verso che sa tremendamente di quotidiano, di routine.

«Eros e Thanatos ad un tavolo da poker. Il dottor Freud, di lato, a sorseggiare un whisky».

Sara Stefanini

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