“La pazza gioia” di Paolo Virzì

la-pazza-gioia-paolo-virzi_980x571E’ la storia di due donne bipolari, Beatrice e Donatella. Beatrice è una ricca signora di origini nobili, che è stata sposata con un avvocato vicino alla classe dirigente di area “berlusconiana”, ma poi ha avuto una relazione disastrosa con un uomo che l’ha costretta, manipolandola, a dissipare il patrimonio di famiglia. Donatella invece è una ragazza umile e fragile, con sindrome depressiva-compulsiva, che vive nel rimorso di non essere stata in grado di trattenere suo figlio, dato in affidamento ad un’altra famiglia.

Le due sono ospitate in una villa di campagna, in Toscana, una comunità terapeutica dove operatori sanitari tengono occupate le pazienti facendole lavorare nel campo ortofrutticolo. Ma le due protagoniste, spinte da vaghi propositi libertari, fuggono dalla comunità, scorrazzando sulla costa toscana e combinandone di tutti i colori. Grazie all’aiuto sconclusionato e pazzoide dell’intraprendente Beatrice, Donatella, prima di rientrare in comunità, riuscirà a vedere suo figlio nella sua nuova famiglia adottiva e a tranquillizzarsi.
A me è sembrato che La Pazza Gioia, ultimo film di Paolo Virzì, tra i migliori registi che abbiamo (Ovosodo, N-Io e Napoleone, Tutta la vita davanti), sia una “Thelma e Louise” revisionata in maniera da renderla una commedia a sfondo sociale, con la giusta dose di commozione, utile a far presa sul pubblico medio. Virzì è bravo a plasmare i suoi attori con i non-attori, come in questo caso con alcune pazienti vere della comunità prestate al cast. Ma differentemente da “Qualcuno volò sul nido del cuculo” di Milos Forman, dove un elemento esterno e apparentemente “sano” (Jack Nicholson) aiuta e incita i pazienti psichiatrici alla ribellione e alla fuga, qui il regista ci mostra il mondo con gli occhi di due pazzerelle senza filtri. L’intento riesce solo a metà, perchè il film a tratti – soprattutto nella parte centrale – non regge, la sceneggiatura è debole e l’epilogo non lascia spazio a nessun alito di anarchia, elemento che sposerebbe un finale più aperto e meno conciliante.
Sta proprio in questo il difetto principale di Virzì, il quale ha fretta di spiegare troppo e tutto, quando è piuttosto nel mistero e nell’inafferrabilità della vita che bisognerebbe insistere per continuare a mantenere viva la commedia. Fare dei film leggeri e profondi allo stesso tempo è prerogativa di Patrice Leconte e di pochissimi altri. Nei film di Virzì c’è sempre qualcosa di amaro, anche se in quest’ultimo il sentimentalismo è un pò troppo smaccato, mieloso, e questo a causa di Francesca Archibugi, co-sceneggiatrice, eccessivamente legata, a mio avviso, ad una lealtà che fa sempre giustizia al buon senso.
Detto questo, il tema trattato, quello del disagio mentale, non è affatto facile da affrontare, e metabolizzato Basaglia, sembra che siano tutti ad aspettare ad occhi aperti un nuovo luminare che dia una dignità alternativa a componenti della società, purtroppo, sempre ai margini, anche come visibilità e rispettabilità. Lo schema consolatorio usato da Virzì o anni fa da Silvano Agosti, dell’umorismo anti-psichiatrico, è commovente ma non arriva, o comunque non arriva più. E dunque? La gente i matti continuerà ad amarli solo al cinema. Paura e diffidenza rimangono ben salde.
La cosa migliore del film è l’empatia di Valeria Bruni Tedeschi (Beatrice) e della sexy e trasandata Micaela Ramazzotti (Donatella), una ninfa dark a tratti irresistibile. Niente male la fotografia di Vladan Radovic.

Ignazio Gori

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