Luca Manfredi racconta suo padre Nino

luca_manfrediIl tuo ultimo film, messo in onda il 25 Settembre su Raiuno, si intitola “In arte Nino”. Non era mai stato fatto un film biografico su Nino Manfredi. Come mai?

Manfredi. Non so, ma sono orgoglioso di averlo fatto io e poi sentivo di dover risolvere alcune questioni in sospeso. Prima di tutte la polemica nata in Ciociaria sulla rivendicazione territoriale di mio padre. Lui è nato a Castro dei Volsci, ma essendosi fatto conoscere con gli sketch del famoso e ormai stracult personaggio del barista di Ceccano, molti credono che sia di Ceccano …

Cosa tratta il film in specifico?

Manfredi. Il film racconta della vita di mio padre dal 1939 al 1959, il ventennio della sua formazione artistica, che culmina con l’apparizione in RAI a “Canzonissima”, con Delia Scala e Paolo Panelli, evento che lo ha fatto conoscere al grande pubblico. Ho voluto inoltre raccontare cose che magari la gente non sa, come il periodo trascorso malato di tubercolosi al Forlanini di Roma: tre anni e mezzo, unico sopravvissuto della sua camerata. Questo episodio fu molto importante per lui, perché da non credente – la domenica a messa non ci andava mai – si vide quasi costretto a ritenersi un “miracolato”, ispirandogli inoltre il film nella doppia veste di regista-attore “Per grazia ricevuta”, premiato al Festival di Cannes del 1971 come miglior opera prima.

Come fu presa dalla famiglia la decisione di dedicarsi alla recitazione?

Manfredi. Decisamente male. Mio nonno infatti era maresciallo di Polizia, un uomo duro che teneva alla carriera professionale del figlio e non certo all’arte. Ma la scelta di mio padre di fare cinema è arrivata per caso, grazie agli amici Tino Buazzelli, di cui aveva una grandissima stima – nel film interpretato da Stefano Fresi – e Gianni Bonagura, che lo hanno convinto, contro il parere di mio nonno, a frequentare l’Accademia d’Arte Drammatica. Comunque ha voluto quasi per sfida onorare l’impegno preso con la famiglia conseguendo la laurea in Legge. Mio nonno non gli ha mai manifestato apertamente il suo apprezzamento, ma io ho voluto comunque chiudere il film con un suo applauso, un applauso istintivo, orgoglioso, davanti al televisore di un bar di San Giovanni, a Roma, mentre Nino si esibiva a Canzonissima, in uno dei suoi sketch. Un finale conciliante.

Chi considerava tuo padre il suo maestro?

Manfredi. Orazio Costa, suo insegnante all’Accademia, al quale ho dedicato il giusto spazio nel film. Costa insisteva sul fatto che gli attori dovessero ispirarsi alla natura. Mi spiego meglio. Se si doveva interpretare un tipo nevrotico, occorreva osservare la vita delle formiche, o se diversamente si doveva interpretare un carattere calmo e sornione magari ci si ispirava ai gatti e così via. Mio padre ha sempre avuto una grande attenzione alla natura e a tutto ciò che lo circondava e gli insegnamenti di Costa sono sempre stati il suo fondamento. Degli attori migliori della sua generazione – Volontè, Sordi, Tognazzi, Gassman … – si considerava il meno talentuoso, istintivo, dunque aveva bisogno di molto studio, uno studio meticoloso dei personaggi, che lo portavano ad una immedesimazione completa, totalizzante. In questo era molto “americano” (Tom Hanks?).

A proposito di questo, quali sono le interpretazioni che preferisci?

Manfredi. Quella che preferisco è senz’altro “Pane e cioccolata” di Franco Brusati, dove interpreta un emigrante italiano in Svizzera, tra mille difficoltà. Un gioiello. Mio padre sentiva molto quella parte forse perché si portava inconsciamente dentro, recondita, la storia di emigrazione della nostra famiglia. Sua madre era figlia di un minatore emigrato in America e tornò in Italia per sposarsi con mio nonno, conosciuto per corrispondenza, come si usava allora. Ecco perché, da anziana, ormai malata di demenza senile, aveva ripreso a parlare spontaneamente in inglese e a chiamarmi Mister Tarantino, come il regista, chissà perché (ride).

E poi?

Manfredi. Sarebbe troppo facile elencare i film con Dino Risi, Ettore Scola e gli altri, ma ce n’è uno tra i meno conosciuti, che secondo me è tra i suoi migliori, “Il padre di famiglia” di Nanny Loy. Con Loy Nino aveva una sintonia particolare. Con lui girò anche “Caffè Express”, dove interpreta anche qui uno dei suoi personaggi derelitti ma pieni di dignità, un venditore abusivo di caffè su un treno di pendolari. In questo film c’è anche Leo Gullotta che ho voluto inserire nel cast di “In arte Nino”; interpreta un professore tisico nel periodo al Forlanini. Ammiro molto Gullotta ed era un buon amico di mio padre.

Mi sono dimenticato di chiederti come ti è venuta l’idea del film …

Manfredi. Mi sono deciso dopo un paio di inviti da parte di amici produttori. Io non ci avevo mai pensato concretamente perché nei confronti di mio padre ho avuto sentimenti contrastanti. Se da un lato infatti avevo un altissimo rispetto artistico – ero infatti un suo spettatore accanito – dall’altro, come figlio l’ho sempre visto distante, per via anche delle sue lunghe assenze da casa. Diciamo che come figlio l’ho vissuto meno. Dunque con questo film ho tentato di riavvicinarmi a lui anche intimamente. “In arte Nino” è un abbraccio a mio padre.

Perché ha scelto Elio Germano per interpretare Nino?

Manfredi. Sono sempre stato attratto dal talento di Germano e l’ho sempre ritenuto simile a mio padre, intendo nella ricerca della perfezione, nel calarsi totalmente nel personaggio. Poi, quando l’ho incontrato, ho saputo che lui si ispirava a mio padre in tutto e per tutto, anzi, che era il suo mito assoluto, e dopo questa rivelazione non c’è stato più nulla da aggiungere. La sua interpretazione è stata mirabile, ci sono stati degli applausi sul set dopo alcune sequenze in cui l’immedesimazione è stata totale; io stesso sono rimasto basito, Elio era Nino …

Renzo Rossellini, in una recente intervista rilasciata al sottoscritto per Kaleidoscopia, ha dichiarato che “non è finito il cinema d’autore, bensì il pubblico del cinema d’autore”. Sei d’accordo?

Manfredi. Si, sono d’accordo. Il cinema d’autore non finisce mai, non può finire, me lo auguro, ma il cinema ha un pubblico vasto e variegato e il pubblico cambia secondo le regole dell’offerta e della richiesta. Questa è una regola inossidabile del mercato.

Quale è secondo te l’eredità più grande di Nino Manfredi?

Manfredi. Il senso dell’artigianalità del mestiere, il grande studio che non lascia niente al caso. I giovani di oggi, pur intraprendenti, puntano a diventare attori solo per essere famosi, magari non impegnandosi a fondo, distratti da altro. Voglio dire che occorre impegnarsi, studiare recitazione per diventare attori migliori, non per diventare famosi. La fama, in caso, arriverà col merito.

Ignazio Gori

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