Moonlight. Una riflessione sull’America

download (1)L’assegnare tre Oscar – film, attore non protagonista e sceneggiatura non originale – a Moonlight di Barry Sanders non è stata una scelta solo cinematografica. Un film recitato interamente da attori di colore, con tematiche quali la tossicodipendenza, il bullismo e la difficile accettazione della propria omosessualità, cade come una spada affilata sulla neopresidenza di Donald Trump. Chi non se n’è accorto è in grave difetto, e questo non per screditare il film, pur meritevole, ma semplicemente per affermare l’evidenza più importante: ovvero che questo Oscar 2017 ha una valenza estremamente “politica”. Un chiaro messaggio da parte dell’Academy, storicamente poco propensa a premiare opere con tematiche ritenute dall’establishment marginali, appunto l’omosessualità (ultimo step rilevante le tre statuette, tra cui miglior regia, ad Ang Lee per “I segreti di Brokeback Mountain”). Per una volta è stata premiata l’attenzione a tematiche sociali prive di clichè, e questo fa onore ai giurati, anche se nulla a Hollywood accade per caso e mi riservo, almeno temporaneamente, nel definire MOONLIGHT una rondine fuori stagione. Riguardo il film più strettamente, c’è poco da dire, se non a mio parere che esso andrebbe inserito in quell’esiguo filone di “neo-neo-realismo” di cui fa parte anche il recente “Ti guardo” di Lorenzo Vigas (Leone d’Oro a Venezia 2015); opere pulite nella costruzione e scarne da un punto di vista registico, ma profondamente introspettive, e soprattutto “aperte”, tracciati di vita e non “closed stories” come vorrebbe la tradizione. La sceneggiatura non originale – tratta da un’opera teatrale di Tarell Alvin McCraney: “In moonlight black boys look blue” – dipinge in modo implacabile l’animo fragile e introverso di un ragazzo di colore di Miami, sprofondato in un quartiere di tossici, dalle esotiche influenze afrocubane, dove il solo modo di farsi rispettare è quello di imporsi come “pappa” o “spaccia” di lusso. Dunque si susseguono tre capitoli della vita di Chiron, dall’adolescenza all’età adulta, all’insegna della ricerca di se stesso, in un mondo ostile, che non sembra fatto per lui: un padre assente, una madre tossicodipendente e la difficile accettazione di una timida omosessualità, in un ghetto permeato di bullismo e omofobia, prolungamenti delle antiche e violente leggi della giungla urbana. Il film ti assorbe, completamente, fino al tenerissimo e limpido finale, quando Chiron, ormai uno “spaccia” rispettato – completo di muscoli, collane e denti d’oro da perfetto rapper – confessa a Kevin, il suo unico amico, di aver pensato solo a lui e a nessun altro. Bravissimi tutti e tre gli attori nelle parti di Chiron: Jaden Diner, Ashton Sanders e Trevante Rhodes, nonché un merito supplementare al regista e sceneggiatore Barry Jenkins, alla sua prima opera di rilievo, che ha saputo in qualche modo unire in un sodalizio brillante e per nulla stucchevole Douglas Sirk e Spike Lee.

(Ignazio Gori)

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