“Non essere cattivo”, film di Claudio Caligari

non-essere-cattivo-posterCon il suo ultimo film, Claudio Caligari, scomparso lo scorso maggio e autore stracult del nostro cimema underground, si è audacemente autocitato, ma questa autocitazione non deve intendersi in senso spregiativo, bensì deve essere vista come passaggio di testimone da una generazione all’altra. I due film in correlazione sono “Amore tossico” del 1983 e “Non essere cattivo” presentato fuori concorso all’ultimo festival di Venezia e appena uscito nelle sale.

Entrambi i film sono ambientati a Ostia, degradata periferia romana, una Ostia che non sembra essere cambiata molto, come ci aveva già mostrato nel 2012 Claudio Giovannesi con il suo film-verità post-pasoliniano “Ali ha gli occhi azzurri”.Ma Giovannesi non è discepolo di Caligari in quanto a realismo documentaristico. Infatti in Giovannesi si ha l’idea di assistere a un film che narra di cose appunto cinematografiche, anche se ben costruite, mentre in Caligari si ha la sensazione di “essere” nella storia, di partecipare, di ferirsi ed emozionarsi con i personaggi. Non c’è nulla di moralistico nel cinema di Caligari, anche se non bisogna fare l’errore di ritenere i personaggi da lui seguiti, tossici e scalmanati, come eroi marginali. Ma lo spettatore è ugualmente tentato (questo più in “Non essere cattivo” che in “Amore tossico”) di immedesimarsi coi protagonisti e con un dolore presente in tutti ma a volte solo sfiorato nel tran tran quotidiano, soprattutto per chi abita e frequenta i sobborghi romani.

Vittorio e Cesare sono due amici d’infanzia che trascorrono le loro giornate fra spaccio, sniffate, pestaggi, piccoli reati e sogni abortiti. Sono figli di una Italia lontana e indifferente, quasi anonima nella narrazione di Caligari, grigia e gelida, uno Stato che non li vuole e non li considera. Il consumo e lo spaccio di droga per Cesare e Vittorio non sono sinonimo di evasione dalla realtà o se si vuole dai problemi quotidiani (la mancanza di lavoro, il costo dei medicinali, ecc.) ma la droga fa semplicemente parte del loro mondo, come respirare, come amare. Il regista è bravo nel dipingere una amicizia senza confini, sincera e priva di barriere egoistiche, dove l’emozione si sovrappone alla compassione e a tratti anche all’ironia, tutti elementi già presenti – anche se ovattati da tinte pseudo pop warholiane – in “Amore tossico”. Ci sono tutti gli ingredienti per un calderone amaro, che ribolle lentamente: la nipote di Cesare che muore di Aids, la corruzione della manovalanza nei cantieri di periferia, il tentativo disperato di farsi una famiglia, tra mille problemi finanziari, una tossicodipendenza diventata quasi sussidiaria all’arrancare quotidiano, la disillusione politica e civile che diventa poetica del “non esistere”, dell'”essere invisibili”.

Cesare, il più scalmanato del branco, che fa capo al classico bar-chiosco del litorale ostiense, non ce la fa e la vita se lo porta via trascinandolo nel baratro, opera di un destino beffardo e giustiziere. Ma Vittorio, addolorato per la scomparsa dell’amico-fratello resiste, rimanendo aggrappato alla vita, si fa una famiglia, sperando in un futuro di sacrificio e lavoro onesto, ma fuori dai giri viziosi della malavita e dei soldi facili. In Caligari (come in Pasolini) la morte esorcizza i dolori terreni dei poveracci, di chi soffre, giustamente o ingiustamente e anche in questo “Non essere cattivo” è un tratto ben presente, ma a differenza di “Amore tossico” dove non trapela speranza alcuna per i sopravvissuti, stavolta il regista si congeda col’immagine di Vittorio emozionata davanti al figlio neonato di Cesare, speranza di un futuro “forse” diverso. E’ dunque discrezione dello spettatore essere ottimista o pessimista, anche se questo non è l’intenzione più intima del regista che ci ha voluto solo mostrare il dolce strazio di alcune esistenze, tra noi, in noi.

La violenza abbondante nel film non disturba, nè ha funzione di patetica interlinea, anzi, quasi assume il ruolo di lirica melodrammatica, somatizzante. In questo film, tremendamente umano, che potrebbe secondo me essere accostato per emozione a “Immacolata e Concetta” di Salvatore Piscicelli o anche a “Il branco” di Marco Risi, ci sono la rivalsa, una rabbia sopita e inestirpabile, nonchè l’orgoglio ferito delle future generazioni.

Riconoscendo la bravura di tutti gli attori: Luca Marinelli, Alessandro Borghi, Silvia D’Amico, Roberta Mattei, Alessandro Bernardini, mi auguro che la ferita che ci lascia questo film non si cicatrizzi mai.

Ignazio Gori

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