“Più buio di mezzanotte” di Sebastiano Riso

cannes-2014-piu-buio-di-mezzanotte-trailer-e-poster-del-film-di-sebastiano-riso-2In una Catania chiusa e allo stesso tempo trasgressiva, come una Berlino in miniatura, “caliente” e triste, come gli opposti dell’animo dei suoi protagonisti, si dipana una storia di vagabondaggio, di formazione, fragile e crudele, come il ricordo di colui che vuole riaprire una dura pagina del suo diario e mostrarla senza paraocchi. In questo senso, “Più buio di mezzanotte”, prima pellicola di Sebastiano Riso, non mostra nulla di nuovo, soprattutto se si ha letto e amato “Scende giù per Toledo”, di Giuseppe Patroni Griffi; ma è innegabile la spietata sincerità – anche se smaltata di gloss e di altri elementi “pop”, difficilmente accomunabili all’ambientazione della storia – che si è voluta, ancora una volta, buttare in faccia a chi nutre pregiudizi sessuali, restii a lasciar spazio a quella che Massimo Consoli chiamava la “comunità varia”.
E’ il classico film che divide critica e pubblico, perchè se da un lato quest’ultimo è facilmente catturabile dai variopinti personaggi e dal colore da essi sprigionato, dall’altro la critica si sofferma alla purezza delle immagini, e alla tecnica – alquanto grossolana – della regia. Ma non voglio soffermarmi su questo, bensì dire della vera anima di questo film, la malinconia e le sue varie sfumature, l’erotismo, il disagio adolescenziale, la scoperta dell’identità sessuale e il pregiudizio, quasi “poetico”, di una città del sud, Catania appunto, sospesa e cristallizzata, tra gli anni Ottanta di David Bowie e Donatella Rettore, e i nostri giorni, dove la transgenia sembra assimilabile a forma artistica, sublime e maledetta.

La trama è un continuo rimando il tra presente e il recente passato di Davide (Davide Capone), un efebico quattordicenne con il sogno di diventare un cantante, anzi, una cantante. Ma la libertà identitaria del ragazzo è impedita da suo padre, maschio del sud e uomo d’onore, restio ad accettare un figlio “jarrusu” (parola dialettale siciliana per indicare un omosessuale particolarmente effeminato). Davide dunque viene costretto a tagliarsi i capelli e a farsi compatire da una madre (la brava Micaela Ramazzotti) che lo ama indistintamente, e che lotta per proteggerlo dalla rabbia del marito avvilito. Davide allora, come in ogni favola tremendamente reale, scappa di casa e vagabondando in una città umida e afosa, trova rifugio nel godereccio quartiere di San Berillo, e nel parco di Villa Bellini, dove cercano riparo angeli della notte, marchettari e travestiti, tutti rigorosamente emarginati o scappati anch’essi di casa. Davide trova sollievo, viene accolto e amato per quello che è. Ma presto inizieranno a suonare le infide sirene della prostituzione, della lotta del sopravvivere, tra piccoli furti al supermercato e retate notturne, dove l’adolescente assaggerà il dolceamaro sapore della vita, fatti di sangue, sperma e gelato al limone.

Due scene andrebbero menzionate su tutte, quella della perdita della verginità del protagonista e la scena finale, con l’urlo liberatorio di Davide, rivolto più a se stesso che agli altri, davanti a uno specchio, un epilogo suggestivo e aperto.
In definitiva, Sebastiano Riso ha saputo modellare senza troppi fronzoli la figura di un piccolo eroe dell’emancipazione moderna, applicando una sorta di “vivisezione” del protagonista, nel estrarre ad esempio quell’ “ospite oscuro” che è in noi e che determina la nostra inclinazione esistenziale, materiale o solo ideale; in questo caso specifico l’affermazione di una diversità palese, che non abbisogna di sconti morali o moralistici. Particolarmente azzeccata la parte del pappone, con un Pippo Delbono al vertice dei caratteristi italiani.
Un buon esordio, dagli acuti potenti, più da sentire e farsi invadere, che guardare con spensieratezza.

Ignazio Gori

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