Roberto Alfatti Appetiti racconta la vita di Charles Bukowski

Caleido_Bukowski_rev3EIn occasione dell’uscita del suo ultimo libro, “Tutti dicono che sono un bastardo. Vita di Charles Bukowski”, edito da Bietti, ho intervistato Roberto Alfatti Appetiti, giornalista, scrittore e comunicatore. Ciò che ne è venuto fuori è una interessante discussione riguardo alla figura di uno dei personaggi “meno conformi” della letteratura americana.

COSA L’HA PORTATA, NELLA SUA RICERCA SOCIOLOGICA E LETTERARIA, A INTERESSARSI DI UN PERSONAGGIO COME CHARLES BUKOWSKI?
Perché da lettore, prima ancora che da autore, avvertivo l’esigenza di una biografia che rimettesse insieme tutti i pezzi di un puzzle più complesso di quanto comunemente si creda e, a distanza di vent’anni dalla morte, ritenevo che fosse giunta l’ora di ripiegare il poster e accantonare definitivamente l’icona dello scrittore ubriacone nel cassetto del modernariato del Novecento e dare un contributo per rileggere in una chiave inedita uno degli scrittori più potenti della letteratura nordamericana. Spero di esserci riuscito, ma questo lo stabiliranno i lettori.

IN UNA INTERVISTA A FERNANDA PIVANO, BUKOWSKI AFFERMO’ CHE CHIUNQUE GLI ATTRIBUISSE CONNOTAZIONI POLITICHE ERANO PERSONE SOLE, BISOGNOSE DI CREARSI DEGLI IDOLI INESISTENTI. CHE NE PENSA?
Bukowski ha detto tutto e il contrario di tutto, circostanza che ha reso difficile, se non impossibile, il compito ai suoi biografi, anche a chi lo ha conosciuto o ha creduto di conoscerlo bene. Una cosa è certa: non amava stare o sentirsi sul piedistallo, non voleva essere, per usare le sue parole, l’ape regina di alcun movimento politico. Non riponeva fiducia nella politica e, in fin dei conti, neanche nell’umanità, colpevole di aver perso autenticità ed essersi lasciata inghiottire dal consumismo. Non credeva nel progresso e detestava i progressisti. Non voleva cambiare il mondo. Non aveva l’ambizione di intervenire nel dibattito politico e si teneva a distanza da ogni salotto culturale. Era uno scrittore di sentimenti, non di idee. I suoi personaggi non si evolvono, non raggiungono illuminazioni, non prendono posizione, semmai la subiscono, si accontentano di ruoli marginali in un film in cui i posti migliori sono già stati assegnati ad altri. Ai suoi scrittori preferiti, Céline, Hamsun e Pound, rimprovera di essersi lasciati compromettere dalla politica, un errore che lui si guarda bene dal compiere. Il che non toglie, però, che ne giustifichi le scelte perché – spiega sempre alla Pivano – gli scrittori liberi trovano più naturale andare nella direzione contraria rispetto a quella in cui va la massa.

HO LETTO UN RACCONTO DI BUKOWSKI, “SVASTICA”, UN RACCONTO GENIALE, VISIONARIO, CHE MI TURBO’ E AFFASCINO’ NON POCO. LO CONOSCE? CHE NE PENSA?
Nel mio libro ne parlo diffusamente. L’ho definito un caso di mala editoria, perché evidentemente quel racconto, decisamente umoristico e tutt’affatto nostalgico, avrebbe comunque potuto creare qualche imbarazzo a chi cercava di vendere il personaggio Bukowski come una specie di Beat minore, un po’ stravagante, ma pur sempre politicamente innocuo. Fortunatamente la lacuna è stata colmata, anni dopo, da Marcello Bareghini, che ha pubblicato il racconto, talmente godibile da risultare immediatamente esaurito. Io credo che la collocazione di quel racconto dovrebbe essere quella naturale, ovvero nelle “Storie di ordinaria follia”, ma evidentemente, ancora oggi, prevalgono altre logiche e si preferisce confezionare un Bukowski normalizzato.

CREDE, COME HANNO DETTO ALTRI, CHE BUKOWSKI SIA PIU’ ASSIMILABILE A UN NICHILISMO POSTMODERNO O PIUTTOSTO LA SUA E’ CINICA INDIFFERENZA?
Troppo complicata, la prima definizione, troppo intellettuale. E non definirei cinica indifferenza l’ironia di Bukowski. Si limita a fotografare la realtà, scatta le sue istantanee senza didascalie, senza condirle con la retorica, senza addolcirla, senza negarla. Cercando, per quanto possibile, di godersi la vita, di cambiare il suo, di mondo. Lui, semplicemente, è convinto che le cose, fuori dal suo appartamento, non cambieranno, non in meglio. I poveri saranno sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi. Non mi sembra che si sia sbagliato di molto o no?

E’ D’ACCORDO NEL DEFINIRE BUKOWSKI UN “ANTIDIVO”?
Sì e no. Quando, dopo una interminabile gavetta, negli anni Ottanta, diventa a tutti gli effetti un vip, non cambia le sue abitudini sociali, non partecipa, se non è costretto, a feste e party. Sfugge a chi vorrebbe intervistarlo, invitarlo, conoscerlo. Per certi versi, se non proprio un timido, è un uomo orgogliosamente schivo. Il suo luogo ideale è la scrittura: sedersi alla sua scrivania, ascoltare un po’ di musica classica in sottofondo, e scrivere fino allo sfinimento. Nello stesso tempo, però, è stato lui stesso a costruirsi una maschera da bad boy, per sopravvivere negli angoli bui delle metropoli. Una maschera dietro cui nascondere le sue debolezze e affrontare i reading, la folla, i caporeparto che lo controllano mentre lavora svogliatamente. Quella maschera, poi, gli starà un po’ stretta perché, paradossalmente, il personaggio Bukowski finirà con il prevalere sullo scrittore di qualità qual è.

GIUSEPPE D’AMBROSIO ANGELILLO, UN EDITORE INDIPENDENTE MILANESE, NEGLI ANNI ’70 SI RECO’ A LOS ANGELES PER CONOSCERE BUKOWSKI. BUKOWSKI BARATTAVA L’OSPITALITA’ CON LA CUCINA PUGLIESE. ALLA LUCE DI QUESTA CHICCA, CREDE DAVVERO CHE L’INTIMITA’ DI BUKOWSKI FOSSE DAVVERO QUELLA DESCRITTA NEI SUOI ASSURDI ROMANZI?
Bukowski esagera, cambia versione a seconda delle esigenze o del capriccio del momento. Taglia, cuce, arricchisce episodi già riferiti arricchendoli ogni volta di particolari affascinanti ma spesso contraddittori. Ma non mente. Dice la verità ma, attenzione, la sua verità. Non possiamo chiedergli di essere obiettivo.

COSA HA VOLUTO IN SOSTANZA, FAR EMERGERE MAGGIORMENTE DELLA AMBIGUA FIGURA DI BUKOWKI E PERCHE’ HA DECISO DI SCRIVERNE UNA NUOVA BIOGRAFIA?
Ho cercato di raccontare, accanto all’ubriacone che scrive, reso immortale dall’interpretazione di Mickey Rourke in Barfly, l’uomo sensibile, di buone letture se non proprio colto, rude ma raffinato, e lo scrittore maturo, che riempie di sesso i suoi racconti ma anche forte di precisi e sorprendenti riferimenti culturali. E l’ho fatto approfondendo la sua infanzia dolente, il suo rapporto con il padre, con la madre, con le donne e con le femministe, che lo hanno osteggiato, ma anche con il lavoro alle poste, con i beat, con la politica, con il cinema, con tutto quello che ha segnato la sua formazione e con tutto quanto si muoveva attorno a lui.

PARTENDO DA KNUT HAMSUN E EZRA POUND, E ARRIVANDO A KEROUAC E BUKOWSKI, LEI CREDE DAVVERO CHE CI POSSA ESSERE UN FILO CONDUTTORE IDEOLOGICO TRA QUESTI AUTORI?
Ideologico non direi. Jack Kerouac , pur avendo dato vita al fenomeno beat, se ne allontanerà proprio perché riterrà che i valori originari del movimento – il rifiuto della morale piccolo borghese, il valore dell’amicizia, la ricerca dell’autenticità e il senso profondo di una comune appartenenza – si fossero smarriti per strada. Se “On the road” era diventato il manifesto dei giovani che ascoltavano tanto Bob Dylan e Leonard Cohen quanto le canzoni dei parà, quell’ansia di rinnovamento e libertà era stata dirottata dai suoi compagni di viaggio proprio sul binario morto dell’ideologia. C’è, semmai, un filo conduttore simile, una comune diffidenza nei confronti della società mercantile e industrializzata. Come Hamsun, che anticipa di decenni la poetica del viaggio inteso come ricerca spirituale di sé, Kerouac e Bukowski coltivano un sentimento antimaterialistico e tengono nella massima considerazione l’irrazionale e l’istintivo. I loro personaggi, per quanto si muovano in contesti molto diversi, presentano inconsuete similitudini. I beat di Kerouac e i barboni di Bukowski trovano nei viandanti di Hamsun dei fratelli maggiori, anche se non vivono nelle terre inesplorate del Nordland ma in giungle d’asfalto. Sono uomini che non subiscono il fascino della modernità, che non sono schiavi delle apparenze e restano scoperti di fronte alle inesorabili disillusioni che la modernità finisce per infliggergli.

Ignazio Gori

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