Sbatti Bellocchio in sesta pagina,
un revival critico dal tocco diretto e sbeffeggiante

Per chi gli anni Settanta li ha vissuti “militando” e anche per i più giovani, appassionati di cinema, che dei Settanta hanno subito ombre e luci. Sbatti Bellocchio in sesta pagina, edito da Donzelli e curato da Steve Della Casa e Paolo Manera, corredato da una prefazione di Marino Sinibaldi, tutti onorevoli cinefili, è un prezioso revival critico, un ampio booklet di recensioni, più o meno ufficiali, ma oltremodo politically un-correct apparse sui giornali della sinistra extraparlamentare, precisamente nell’arco di tempo che va dal 1968 al 1976. Parliamo di Lotta Continua, Vedo Rosso, La Vecchia Talpa, Servire il Popolo, il Quotidiano dei Lavoratori, Il Manifesto e Re Nudo.

A leggerlo si resta allibiti non solo dal tipo di critica che gli articoli sputano, ma dal modo, diretto e sbeffeggiante, ora assolutamente impensabile (se si escludono forse Dagospia e Massimiliano Parente su Il Giornale). I pezzi non sono mai firmati – e non è un caso – a rimarcare il valore “popolare”, molto “comunista” se vogliamo entrare nel cuore della questione, del messaggio dei vari anonimi recensori, che, in contesti spesso e volentieri avulsi alla mera critica cinematografica (e quindi artistica), si inerpicano sul “boia” e “caino” di turno. Dietro ci sono inevitabilmente le ombre delle lingue più velenose di quegli anni: Adriano Sofri, Valentino Parlato, Umberto Eco.

Meraviglia la rozza originalità intellettuale usata nel fare a pezzi, uno dopo l’altro opere come: Allonsanfàn dei Taviani, Novecento di Bertolucci, Sbatti il mostro in prima pagina di Bellocchio e soprattutto La classe operaria va in Paradiso di Petri. Le critiche delle varie testate bene o male si equivalgono: se in Novecento Bertolucci è stato incapace di rendere la realtà dei mezzadri romagnoli, La classe operaia di Petri non va in Paradiso ma al’Inferno, grazie al “cottimo” che rovina l’esistenza degli operai dell’hinterland milanese, che scava dentro come un cancro, fino a cancellare diritti e umanità.

Non mancano curiosità e veleni attorno alla continua e ostinata lotta di classe, al focus dell’occupazione forzata di cinema con prezzi troppo alti e festival fascisti, o alla sempre imminente rivoluzione in nome del popolo, interesse principale della scomoda sinistra extraparlamentare di quegli anni. Interessante e avvincente il massacro operato all’avanzare del cinema consumistico “da cassetta”, i vari Buzzanca e i “spaghetti western” di serie B, che apriranno il dibattito all’ambiguo valore della Trilogia della vita di Pasolini, ponte, prima del monstrum-Salò, tra la commedia popolare e il film d’autore, citazione di citazioni.

Sbatti Bellocchio in sesta pagina non è un libro che apre a una critica letteraria, piuttosto è opera riflessiva, che conduce l’attenzione del lettore in un periodo storico fondamentale per l’Italia, in cui il dibattito politico era di fondamentale importanza per secernere l’arte buona da tutto il resto; il filtro era sempre quel drappo rosso (aggettivo cromatico in questo caso del tutto “politico”) utile a promuovere o bocciare: “un film non è buono perché è un film, ma è buono per il Popolo se trasmette la verità, la realtà. Tutto il resto è merda borghese”, meritevole, aggiungerei, di stroncature ideologiche più che intellettuali.

Ignazio Gori

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