Sergio D’Offizi si confessa: “Dei 117 film che ho fatto, ci sono quelli di serie A e di serie B”

1-78-1103201102356sergiodoffiziSergio D’Offizi, leggendario direttore della fotografia del cinema italiano, si confessa a Kaleidoscopia.

DA DIRETTORE DELLA FOTOGRAFIA, CHE COS’E’ PER LEI LA LUCE?

D’Offizi. La luce è sentimento. Rivela gli stati d’animo, come la gioia e il dolore della persona in quel momento oggetto di luce. È uno strumento del tutto “umano”. Io distinguo sempre i due mezzi fondamentali del nostro lavoro: la macchina da presa e la luce. La macchina è cinica, mostra l’esterno, quello che appare; mentre la luce è altruista, mostra tutto, anche l’animo, e come dicevo il sentimento.

CHI E’ STATO IL SUO MAESTRO?

D’Offizi. Ho risposto molte volte a questa domanda, ma anche stavolta devo rispondere che io non ho avuto maestri. Ho avuto un percorso comune, da operatore alla macchina, da assistente e infine da direttore della fotografia, apprendendo un poco da tutti, ma rimanendo fedele alla mia crescita personale, e credo, caratterizzandomi dagli altri.

LEI HA LAVORATO IN FILM LEGGENDARI, COME “NON SI SEVIZIA UN PAPERINO” DI LUCIO FULCI, “CANNIBAL HOLOCAUST” DI RUGGERO DEODATO E “VENERE IN PELLICCIA” DI MASSIMO DALLAMANO. MA QUAL E’ STATO IL FILM CHE PIU’ L’HA IMPEGNATA?

D’Offizi. Io non rinnego nessuno dei 117 film che ho fatto. L’ho affrontati tutti con passione e disciplina. Ma pensandoci bene, quelli che mi hanno impegnato maggiormente sono stati “Detenuto in attesa di giudizio” di Nanni Loy e “Il marchese del Grillo” di Mario Monicelli. Per me ci sono film di Serie A, destinati agli squali della critica e ai festival e film di Serie B, spesso commedie, dalle strutture fragili, commerciali, ma spesso non meno importanti. A prescindere da questa distinzione, ogni film è una avventura nuova e va preso con la dovuta “paura professionale”. Fu proprio Loy a dirmelo durante la lavorazione di “Detenuto in attesa di giudizio”. Io gli espressi tutto il mio timore, nel lavorare a una grande produzione, con un mostro sacro come Alberto Sordi, e Loy, che era un grande professionista, mi disse: “Anch’io ho paura Sergio, ma non dirlo a nessuno.”

IL SUO SODALIZIO CON SORDI E’ DURATO MOLTI ANNI, INSIEME AVETE FIRMATO “DETENUTO IN ATTESA DI GIUDIZIO”, “IL MARCHESE DEL GRILLO” “IL TESTIMONE”, “IN VIAGGIO CON PAPA’” … MA COM’ERA IL SUO RAPPORTO CON SORDI?

D’Offizi. Il primo film che feci con Alberto fu appunto “Detenuto …” e vista la difficoltà della fotografia (quel film era praticamente quasi tutto girato all’interno di buie e anguste celle) Alberto fu piacevolmente colpito dal mio lavoro, tanto che mi chiamò per il suo successivo film “Anastasia mio fratello”. Fra noi c’era un rapporto di stima e fiducia, e stringemmo di più negli Stati Uniti, durante le riprese del film. Poi lui rimase male perché dovetti rifiutare di lavorare con lui a “Polvere di stelle” per un precedente impegno preso con un altro regista. Ci ritrovammo solo alcuni anni dopo grazie al film “Finchè c’è guerra c’è speranza” girato in Africa. Con Alberto sono comunque stati 14 anni di amicizia e stima. Non rimpiango nulla, nemmeno le incomprensioni.

SCEGLIENDO FRA TOTO’, PAOLO VILLAGGIO, RENATO POZZETTO E MASSIMO TROISI, QUAL E’ IL COMICO PIU’ TRISTE CON CUI HA LAVORATO?

D’Offizi. Sicuramente Totò. Tra i primi film a cui ho lavorato come operatore alla macchina fu “Totò sexy”. Beh, lui era serissimo, cupo. Entrava e usciva dalla scena senza dare confidenza a nessuno, nemmeno agli altri attori, tantomeno si soffermava con la troupe. Solo nel film “Il comandante”, a cui teneva molto – perché era un film fuori dal clichè del personaggio Totò – si fermava a parlare con noi, a chiedere spiegazioni, ecc. Ma nel complesso non era certo una persona solare, espansiva e scherzosa. Anzi, tutto il contrario.

QUAL E’ STATO IL REGISTA CHE L’HA MESSA PIU’ IN DIFFICOLTA’?

D’Offizi. Devo dire Mario Monicelli. Mario era una persona burbera, chiusa, e fra noi calò subito il gelo. Durante le riprese de “Il marchese del Grillo” nemmeno si degnava di parlare con me, di fare o meno apprezzamenti sul mio lavoro. Solo alla fine delle riprese mi prese da parte e si complimentò, ma pacatamente. Un grande professionista ma non una persona facile con cui lavorare. Mario mi aveva promesso di farmi lavorare a tutti i suoi film successivi, ma non riuscì a mantenere la promessa. Mi chiamò solo per “Amici miei II” e poi non si fece più vivo. Ci rimasi molto male. Questo è uno dei miei più grandi rimpianti.

LEI CREDE CHE IL CINEMA D’AUTORE ITALIANO SIA MORTO E SEPOLTO?

D’Offizi. Non direi. Secondo me Tornatore e Ozpetek fanno film d’autore … Certo, non è più come una volta, ma bisogna pur capire che cambiano le esigenze del pubblico, anzi, cambia il pubblico, e l’industria del cinema deve adeguarsi. Purtroppo è un dato di fatto. Le faccio un esempio. Io e Sordi siamo stati due “impiegati” del cinema, e gli impiegati devono fare bene il proprio lavoro, qualsiasi sia il lavoro richiesto. Questo significa essere veri professionisti.

Ignazio Gori

Lascia un commento