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“All’Inferno senza ritorno”. Il Club di Pablo Larraìn

downloadQuattro sacerdoti “maledetti”, una donna ex suora e un levriero da corsa, vivono insieme in una casa “purgatoriale” in un imprecisato paese costiero del sud del Cile. Ognuno di loro è stato mandato qui per espiare colpe talmente grandi da oscurare la coscienza di qualsiasi essere umano, ma sembrano apparentemente sereni, sotto la guida della ex suora, che gestisce le scommesse sulle corse del loro amato cane. Ma un giorno un nuovo venuto, un prete tormentato, si spara un colpo alla testa dopo aver ascoltato le sconce lamentele di un suo ex chierichetto da lui stesso abusato, che si fa chiamare Sandokan ed è una specie di martire omosessuale sadomasochista. Sarà in parte l’arrivo di un affascinante e ambiguo emissario del Vaticano a far luce sul passato e sull’espiazione del gruppo.
“Solo il dolore può salvare”. Il nuovo film dell’anticonformista Pablo Larraìn, è lo spietato riassunto di un versetto biblico. “Il Club” è un’opera di una crudeltà espressiva e realistica al pari di “Miss Violence” di Alexandros Avranas (2013), un film che colpisce a fondo l’animo dello spettatore utilizzando le armi di una lentissima, silenziosa ma inesorabile caduta. Si ha infatti la sensazione di cadere nello stesso baratro in cui sono finiti i personaggi di questo ” club” esclusivo e minoritario (ci terrebbe a dire la Chiesa, ma in realtà ben poco minoritario): abusi su minori, compravendita di neonati, omertà episcopale, peccati che solo Dio, forse, può perdonare.
Tragico per tema e ambientazione, questo film sa essere a suo modo estremamente umano, poetico e ha uno strano humor nero e dissacrante, tipico di alcuni capolavori noir. Un film decisamente di rottura, quello che si merita il futuro della settima arte.
Bravissimi tutti gli interpreti: Roberto Farìas, Antonia Zegers, Alejandro Goic, Alejandro Sieveking, ma soprattutto Alfredo Castro, già apprezzato nel recente “Ti guardo” di Lorenzo Vigas.
Un particolare da non sottovalutare: questo film era uscito in quattro cinema romani. In due giorni è stato misteriosamente tolto di mezzo, senza spiegazioni, rimanendo solo un altro giorno, strenuamente, solo al Quattro Fontane.
Cosa c’è sotto? Per chi è scomodo “Il Club”?

Ignazio Gori

“The Danish Girl” di Tom Hooper

The danish girlCi troviamo a Copenaghen, negli anni ’20. La pittrice in crisi d’ispirazione Gerda, moglie del più noto pittore paesaggista Einar Wegener, ha una fulminante intuizione e inizia a dipingere ritratti di suo marito travestito da donna. Questi quadri iniziano ad avere popolarità e Gerda può accarezzare il sogno di vederli esposti in una mostra addirittura nella sfavillante “Ville lumiere”. Nel frattempo però, la coppia va in crisi, perché Einar, sentendosi sempre più a suo agio nei panni femminili, inizia ad avere dei seri dubbi sulla sua eterosessualità (o forse quella del pittore è una vera e propria resa dei conti, dopo anni trascorsi a reprimere un’omosessualità latente?). Giunto dunque a un punto di non ritorno, dopo essersi ritrovato a provare attrazione per un ragazzo, Einar, con l’aiuto di sua moglie, dapprincipio titubante e poi sempre più premurosa, tenta di effettuare il primo intervento in assoluto di cambio di sesso. Il risultato sarà il suo martirio in nome dell’identità sessuale.
Anche se “The danish girl” di Tom Hooper – già ‘oscarizzato’ per “Il discorso del re” – sembra il manifesto di tutti i film “transgenici”, questa specifica filmografia non aveva certo bisogno di questo melodrammone sentimentale strappalacrime, che pur ha vinto il Queer Lion 2015 (miglior film dell’anno a tematica gay). Opere come *La moglie del soldato* o *Breakfast on Pluto* entrambi di Neil Jordan, o *Wildside* di Sébastien Lifshitz sono ben lontani. Sarebbe potuta esserci un’attenuante se la storia fosse stata tratta da un romanzo, dove la patinatura avrebbe avuto un senso diverso e complementare, come nel recente *Carol* di Todd Hayes. Perché è proprio la mancanza totale di realismo il difetto principale di questo film, nonché un buonismo ridondante e una eccessiva sensibilità al problema, quando invece è nota alle cronache la tremenda condizione in quegli anni per una persona con certe pulsioni, ovvero si finiva in manicomio senza mezzi termini. Nonostante ci sia una buona fotografia e un’ottima scenografia, ci sono le note stonate di trucco & parrucco, completamente fuori tempo (orripilanti le parrucche indossate da Alicia Vikander, nella parte di Gerda). Doveva essere un film aggressivo, rabbioso, intimo e struggentemente sessuale … e non questa poltiglia di dolcezza stucchevole e banalizzante. Dunque purtroppo nulla di eccezionale, semplice “routine cinematografica” per accalappiare la massa.
Potete leggere ovunque di quanto sia stato bravo il dolcissimo Eddie Redmayne recitando da transgender nella parte di Einar/Lili, ma oltre a un paio di moine e ad una smorfia a testa bassa, l’attore non è andato; mentre trovo decisamente migliore lei, la bellissima Alicia Vikander, rivelazione del cinema svedese, che qualcuno ha definito una delle donne più belle al mondo.

Ignazio Gori

“Irrational man” di Woody Allen

irrational-man-538x768“Irrational man” è la tormentata vicenda di un uomo solo apparentemente irrazionale. Abe Lucas – interpretato da un Joaquin Phoenix appesantito e imbolsito – è un professore di filosofia attanagliato da una crisi esistenziale, che sembra essersi acuita dopo la morte del suo miglior amico, saltato su una mina antiuomo in Iraq. Trasferitosi in un college del New England, Abe conosce due donne con le quali inizierà delle relazioni; la prima è Rita, una collega ninfomane, stanca del marito (Parker Posey), la seconda è Jill, una fresca studentessa (Emma Stone) – la classica “Lolita” cresciutella di Allen. Il regista sceglie ancora una volta il triangolo come status dove far respirare e poi sopprimere l’animo di un Uomo Contemporaneo, eroe solo di se stesso, incompreso e affascinante, che oscilla tra genialità anarcoide e depressione cronica incurabile, nella geometrica visione diagnostica del regista newyorkese. Continua a leggere