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Narcisismo digitale, questo sconosciuto

Libro consigliato: “Giornalismo partecipativo o narcisismo digitale?”

Cercare il proprio nome sui motori di ricerca? Analizzare quanto si è presenti nel Web? Tutto ciò ha un nome e si chiama narcisismo digitale. Il neologismo deriva dall’inglese to surf che significa “navigare”, sommato alla parola ego la quale significa il “sé, l’”Io”. Non è quel che si direbbe un argomento comune, ma il narcisismo digitale è presente nell’Oxford English Dictionary già dal 1998.

Il culto di sé porta gli egosurfisti a ricercare siti che permettono di calcolare lo stato virtuale di un utente per verificare come compare online. Qdos.com, ad esempio, è nato nel 2008 e stila persino una classifica “Top 20” dei più cliccati. Stando ai dati resi pubblici dalla stessa applicazione, i più narcisisti sono gli inglesi e prendono decisioni in base al loro status digitale. Pensare che il 16% degli intervistati ha scelto la propria casa basandosi sui possibili vicini che appaiono online, è assurdo. Eppure equivale a verità. Uno su cinque, ha ricercato il potenziale datore di lavoro prima di accettare l’assunzione stessa. Il fenomeno dell’egosurfing deriva in gran parte dalla distorsione che inevitabilmente si crea attorno ad un mezzo di comunicazione nel momento in cui quest’ultimo diventa di massa.

Il digit-Io si sta diffondendo ed esperti in comunicazione cominciano a studiare il caso. Per un certo filone di studiosi, i contenuti prodotti dal Web 2.0, il web partecipativo, sono prodotti “nonsense autoreferenziali”, autocitazioni che vanno a gratificare l’Io. Sintomo ad esso collegato è il presenzialismo. La voglia di esserci sempre e dovunque. Su ogni sito o blog, si sente la necessità di lasciare il segno. E da ciò, derivano due conseguenze: la depressione da assenza e l’esaltazione da presenza. O ci si sente delusi perché il Web non si degna di far comparire il proprio nome o si è infervorati per aver ritrovato la propria traccia su Internet.

In America, il fenomeno sta diventando una mania. Il 47% dichiara esplicitamente la ricerca di sé, rispetto al 22% del 2002. Il sondaggio è stato svolto dalla Pew Internet & American Research. L’indagine è stata chiamata Digital Footprints, ossia le “impronte digitali” lasciate da migliaia e migliaia di utenti.

Ma la domanda che può sembrar banale è: perché gli utenti sono utenti e partecipano attivamente nel Web? Secondo Abraham Maslow, uno dei padri fondatori della psicologia umanistica, suppone che le persone siano motivate a partecipare per soddisfare le proprie necessità. Amy Jo Kim, ricercatrice dei new media, nel saggio Community building in the Web, ha realizzato una gerarchia delle necessità online, dall’accesso al Web, allo sviluppo di capacità che portano a nuove opportunità nella rete. Viene, così, messa in gioco la reputazione, che può essere acquisita e guadagnata nel Web, ma con dei limiti. La mancanza di “portabilità” è uno di questi. La stima ottenuta in un sito, non è trasferibile in un altro. Questo crea delle “isole di reputazione”, senza completa possibilità di collegamento.

Il Web 2.0 è un mondo ormai in evoluzione dove l’informazione è wiki, si costruisce, cioè, insieme, nel piccolo grande villaggio globale. La Rete ha eliminato le distanze, ha dimezzato i tempi ed ha dato voce a quell’audience creduto passivo. Quelle persone, adesso, sono le protagoniste del mondo virtuale.

Sara Stefanini