“Tatuaggio profondo” di Antonio Veneziani

TATUAGGIO PROFONDO def_Layout 1In alcuni autori la sublimazione poetica dovuta all’esperienza, all’amarezza accumulata, alla solitudine, alla passione e a un amore costantemente irraggiungibile, si fa grumo caleidoscopico di sangue, capace di infettare persino l’ombra di una emozione malcelata. Partendo da questo, Tatuaggio profondo di Antonio Veneziani, in uscita da Elliot, è un port-folio di emozioni ferite, prova finale di un’operazione anatomica che il poeta ha minuziosamente attuato su se stesso, fino alla scorticazione cutanea.

In questa silloge, composta da poesie singole o poemetti, l’autore si fregia definitivamente della sua gaia disperazione, dovuta a un amore che va e che viene, come una maledizione, dolce e violenta. “Tutto quel bruciare/fu una maledizione/presto trasformatasi in tormento./Prigioniero afflitto giro per le strade/e l’aria non è più mia./Tornato a casa, sul letto sgualcito,/si stende carezzevole/una schiena nuda./Dall’angolo, come sortilegio,/viene una voce simile alla tua.” I testi si susseguono, cadenzati frammenti di un diario d’amore strappato in pezzi e a commossi tentativi riunito con la malinconia maestra che regola la vita quotidiana dello stesso Veneziani. Appunti trascritti a Roma, la dolce Giudecca infernale, dove la primavera è restia ad andarsene. A Sabaudia, nel sud e in varie città europee, dove il vizio rabdomantico per il sesso occasionale si fa straniamento, evasione. E infine c’è Torre Castello, un verosimile paesino di campagna ai limiti della Metropoli, dove l’autore sembra rifugiarsi lontano da ogni rinnovata delusione amorosa, un luogo favolistico, sposato con un profondo desiderio di solitudine, una senilità poetica dove il corpo sfiorisce rigenerandosi. “Basta un passo deciso/a trascinarmi fuori/dalla vedovanza./Nell’aria scarmigliata/le vetrine che trascuravamo/erano insignificanti rovine./Precocemente invecchiato,/anche oggi tradirò la promessa/di non cercarti.”

Nonostante la teatralità di certe assonanze, di rimandi sospettosi e depravate meraviglie, non si ha mai il dubbio che quelle descritte nel libro non siano piaghe vissute personalmente dall’autore, una forza trascinante e stranamente pacata, d’un pessimismo minimo, cinicamente artistico. Veneziani si rivolge sempre alla stessa persona, l’amato ragazzo, come in Pasolini, da ricercare affannosamente in chiunque gli sappia ispirare una giovinezza primordiale e cristallizzata, ma la sua è una poesia laicamente dispensata da ogni tipo di romanticismo, volta a un istrionico autolesionismo. Gli omaggi in appendice al testo di Renzo Paris, Carlo Coccioli, Giancarlo De Cataldo e Aldo Rosselli, insistono sull’irrequietezza stilistica, ma per capire a fondo questo sanguigno attaccamento alla vita, alla scrupolosa oggettistica che riempie un’esistenza di poeta, bisognerebbe conoscere Veneziani personalmente, per poi ignorarlo, (non pasteggiare la sua claudicante noia nel rimanere aggrappato a un paese ormai del tutto “spoetato”); altrimenti si finirebbe per apprezzarlo troppo, e non riconoscere il rancore che nutre nel ventre con la ferocia di un indelebile “tatuaggio profondo”. Perché Veneziani, è l’ultimo poeta della sua generazione, più volte nel testo tristemente evocata, un retaggio beat che continua a penetrarlo fin nel midollo. Abbandonati i fantasmi di Amelia Rosselli, di Dario Bellezza, e di tutti gli amici persi negli anni, Veneziani è il superstite di una solitudine che accomuna i veri poeti, capaci di uccidersi per un nonnulla o sopravvivere all’imbarbarimento dell’anima.

Ignazio Gori

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