“On the road”, dal libro al film, 55 anni dopo
La spregiudicata vampirella di Twilight e le scene hot

Un film da vedere, ma il film è insuperabile. Ci sono voluti cinquantacinque anni per l’attesissima trasposizione cinematografica del romanzo On the road di Jack Kerouac, uscito in America nel 1957 e divenuto immediatamente un fenomeno generazionale. Le attese erano immense. È forse per questo motivo che Francis Ford Coppola, detentore dei diritti di sfruttamento cinematografico del libro, non ha mai voluto rischiare di svilire, seppur di un unghia, un mito del genere. Moravia, che detiene il primato, insieme a Salgari, tra i romanzieri che hanno visto le loro opere trasposte sul grande schermo, diceva che un film restituisce fiducia al romanzo da cui è tratto “solo” se viene reinterpretato interamente; ma forse Coppola non è d’accordo.
La patata bollente è passata quindi da Coppola a un giovane regista di fiducia, Walter Salles, reduce da un altro “road movie” I diari della motocicletta, sui viaggi giovanile del Che in Sudamerica e quindi in perfetta sintonia con l’ambizioso progetto kerouakiano.

Il regista è brasiliano, e si vede; non mancano infatti farciture di sesso promiscuo, come quella magistralmente interpretata dall’attore-feticcio Steve Buscemi con Garret Hedlund, nelle parti di Dean Moriarty. Questo fa pensare che Salles abbia consultato anche l’original scroll, cioè il manoscritto originale di Kerouac, all’epoca scremato da slang e volgarismi, nonché da descrizioni minuziose di rapporti sessuali di ogni tipo. Accattivante anche la sequenza di un rapporto orale in macchina, tra Kristen Stewart nella parte di Marylou e lo stesso Moriarty, con in sottofondo un ricercatissimo Death letter blues di Son House (ascolatala qui). È la colonna sonora infatti il cuore pulsante del film, con un ritmo jazzistico-orgiastico che non da tregua (Salt peanuts di Charlie “Bird” Parker).

Il film non concede pause, se non quelle del più riflessivo Sam Riley, promettente attore inglese che interpreta Sal Paradiso (alias Jack Kerouac), e la sua “cristiana” timidezza, contrapposta alla poetica e sfrenata follia virile di Dean Moriarty (alias Neal Cassady). In realtà il libro, come il film, è la storia di un profondo amore, che va oltre la percezione sessuale, tra Paradiso e Moriarty, dove il continuo scambio emozionale va di pari passo con l’inarrestabile ricerca di dare un senso a questo amore, così come alla vita, al destino. Moriarty, perfettamente interpretato da Garrett Hedlund, è il Dio Greco, lo Stallone d’Oro che fa innamorare tutti, capace di sprazzi di euforia incontenibile alternati a cadute melanconiche di derivazione proustiana; non è un caso che proprio il regista indugi più di una volta su Swann’s Way di Marcel Proust.

A proposito di Proust, Enrico Rava, trombettista jazz di fama internazionale, nella sua autobiografia edita da Feltrinelli, scrive: “Negli anni ’50 uno dei rappresentanti di punta della Beat Generation, Jack Kerouac, folgorato dal jazz, tentò di dar vita a una “scrittura jazz” mancando clamorosamente il bersaglio. (…) Marcel Proust è il primo e unico “scrittore jazz”. Io non sono completamente d’accordo con Rava, ma il collegamento è davvero stimolante e lascia aperta la diatriba.

Tra le note stonate, bisogna menzionare Viggo Mortensen, nei panni del vecchio “droghiere” Bull Lee, ovverosia William Burroughs; un ruolo un poco forzato, di cui si poteva fare a meno. Mentre le citazioni letterarie-cardine ci sono quasi tutte. In conclusione ne voglio menzionare una, facendo muovere le labbra di Carlo Marx (alias Allen Ginsberg), come un profeta redivivo: “Alla fine dell’arcobaleno non c’è oro, ma solo merda e piscio. Ma l’esserne convinto mi fa sentire libero.” Sembra la fine di un sogno, bruciato come un tramonto nel deserto. Un film da vedere, ma il libro è insuperabile.

Ignazio Gori

Viggo Mortensen

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