Il Sacro Gra, dal red carpet di Venezia al cinema
Anche i display dell’Anas omaggiano Rosi

sacro gra“Il sacro Gra”, va fatto respirare, come un luogo dell’anima, mobile ma inestirpabile. Bernardo Bertolucci ha definito questo ultimo lavoro di Rosi – il più grande documentarista “narrativo” in circolazione, basta rivedere “Boatman” del 1993, forse il suo più toccante lavoro – un film esclusivamente poetico. Questa considerazione mi trova assolutamente d’accordo. “Sacro Gra” è un poema lirico. Scorre con e nelle sue stesse immagini, impreziosite di una eccezionale cromatica fotografica.

Ci sono delle storie singole e separate che si intrecciano, ma non convergono, e questo fa si che nello spettatore permanga un senso di tenera estraneità alle stesse storie narrate, quella stessa estraneità tipica della romanità, come affermava Moravia, intesa non come cittadinanza, bensì come spietata comunità accentratrice. Nell’esporre la realtà dei vari personaggi, realtà alienata da una recitazione posticcia, Rosi non trasmette alcuna sensazione critica di tipo personale, preferendo – appunto come certi poeti – far parlare le immagini di una quotidianità intima e scostante al contempo. Questo però non evita ad una muta e indiscreta invettiva di venir fuori, parafrasata dalle parole dei personaggi esposti allo schermo.

Il Grande Raccordo Anulare è un pretesto narrativo per dire di un luogo/non-luogo e della sua flora e fauna (infinitesimamente umana, fino in fondo) disurbanizzata, limbo sospeso di parabole umane portatrici di eterogenei valori. L’attempata prostituta che attende e attende il suo cliente, canticchiando Baglioni, in un ciclo catartico antico e moderno. Il vecchio barcaiolo pescatore di anguille che si lamenta dell’invasione di anguille di razza straniera, anzi, “bastarda”, come “bastardo” è nella mente e nel cuore di un avvilito botanico, il temibile Punteruolo Rosso, vero leitmotiv del film, squittente e inesorabile tiranno della palma mediterranea, nella concezione esistenziale dell’opera, simbolo di un virus moderno che pian piano divora l’uomo dall’interno. Questo è l’unico frammento morale del film. E poi ancora il nobile decaduto che affitta il suo pacchiano castellotto a scadenti set di fotoromanzi (echi di Fellini nel magnetico rancore di un maturo attore, il quale si confessa a una modella dicendole: “Se mi avessero offerto un vero ruolo da protagonista avrei senz’altro dato via il c …” e in queste parole c’è tutta la Roma possibile e immaginale).

“Le città invisibili” di Calvino, citazione sottopelle di questo frammentario, poetica e antipoetica di un “altrove” a noi terribilmente prossimo, sono sensibilmente ravvisabili nelle moderne costruzioni di vetrocemento, da cui si scorge in lontananza un irraggiungibile cupolone di San Pietro, miraggio e conforto di una solitudine metastorica. Va detto infine che Sacro Gra è difficilmente assimilabile da chi non vive, anche di straforo, l’ambiente romano, in quanto la commedia sublimata da una universale piccolezza, va a toccare tutti o quasi i punti deboli di una metropoli mera rappresentazione di se stessa, esposta a nessun tipo di commento, che non sia contiguo all’inevitabile flusso di vita.

Ignazio Gori

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