“Youth” di Paolo Sorrentino

youth posterLa vecchiaia come un dolce sogno da strozzare nel sonno. Sorrentino a mio parere torna a ridefinire meglio il suo stile, dopo il troppo barocco “La grande bellezza” e lo fa usando la leggerezza, come una tentazione irresistibile.
La trama è semplice, anzi, è una non-trama, quasi un flusso del quotidiano soggiorno alpestre di alcuni personaggi, su tutti Fred e Mick, un direttore d’orchestra e un regista di cinema, amici da moltissimi anni.

Il regista spia, all’interno di un’attrezzatissima casa di cura svizzera, l’intimità di questi due ottantenni, una intimità contaminata di elementi che ormai possiamo tranquillamente definire “sorrentiniani”. Il ritmo del film, spalmandosi addosso alla fittizia quiete dei protagonisti, penetra lentamente nello spettatore, facendolo cadere in una catalessi contemplativa. La poetica del film è forse un pochino stiracchiata, a tratti melensa, ma i difetti della senilità dissecretati da Sorrentino assicurano con ironia una discreta presa sul pubblico. Fred (Michael Caine) non ha alcuna intenzione di tornare a dirigere un’orchestra, nemmeno se glielo chiedesse la regina Elisabetta d’Inghilterra e in compenso ha da risolvere il suo freddo rapporto con la figlia (Rachel Weisz) che lo accusa di trascurare la madre, ormai in stato vegetativo in una malinconica clinica veneziana. Mick (Harvey Keitel) si tormenta invece nel terminare il film che dovrebbe essere il suo testamento spirituale, artistico morale, un film che prevede immancabilmente la partecipazione della protagonista di molti altri suoi film di successo, Brenda Morel, interpretata da una fantastica Jane Fonda, la quale rifiuta il ruolo offertole, mettendo in crisi il regista. E’ senza dubbio il dialogo fra Keitel e Fonda il culmine del film, con uno scambio di battute acute e amare, dove Sorrentino sembra riversare tutto il suo rancore. Brenda Morel infatti rifiuta il film del vecchio amico preferendo un ruolo televisivo: “La televisione è il futuro, anzi, è già il presente.” E’ per Sorrentino l’epigrafe definitivo sulla lapide del cinema d’autore, messa in bocca a una icona come Jane Fonda, una sentenza che si abbatte sul poetico e romantico animo del Regista il quale davanti agli occhi dell’amico Fred, si suicida gettandosi dal balcone dell’hotel (c’è forse in Sorrentino la volontà di richiamare la morte neoromantica di Carlo Lizzani e Mario Monicelli?).
C’è dunque nel film il peso del tempo che avanza, con i suoi inevitabili rimorsi, e con una accentuata lirica del corpo, un ritratto quasi manierista di emozioni segrete, sotterranee, sussurrate, che fa perdonare qualche battuta posticcia o banali auto-citazioni (forzata a mio avviso la presenza della caricatura del fantasma di Maradona, ma Sorrentino è napoletano e basta a somatizzare ogni intrusione “pop”). Bella e delicata la colonna sonora. In rilievo i costumi di Carlo Poggioli.
E’ ovvio che il Sorrentino de “L’amico di famiglia” non può ripresentarsi dal passato, ma se l’odierno Sorrentino internazionale riuscisse a far più sua anche la sceneggiatura dei suoi film avremmo in parte salvato una parte del futuro del cinema d’autore italiano. L’universo di Sorrentino è creativo quanto basta per non esaurirsi in prodotti ibridi, tentativi di cinema autoriale. Quello di Sorrentino non è un cinema intellettuale, ma un cinema emozionale. Questa è una speranza.

Ignazio Gori

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