Jukebox all’Idroscalo, Marco de Annuntiis racconta il suo dissacrante progetto musicale

JBI JukeBox all’Idroscalo è il progetto musicale del cantautore Marco de Annuntiis, al quale collaborano diversi musicisti. Il progetto nasce nel 2015 anticipato da un primo singolo in chiave electro-pop (“Vertigine”, Interbeat Records). Nel nuovo album attualmente in produzione JBI continua, sotto l’egida di Serge Gainsbourg e Pier Paolo Pasolini, a mischiare poesia e colonne sonore in una personale chiave colta e dissacrante.

Che inerenza ha il nome del suo gruppo con l’opera del poeta beat Allen Ginsberg “Jukebox all’idrogeno”?
“Jukebox all’Idroscalo” è un gioco di parole che viene proprio dal titolo di quel libro. La beat generation resta l’esempio più alto che abbiamo mai avuto di dialogo alla pari tra poesia e musica rock; dopodiché hanno continuato a camminare ognuna per la sua strada. Per questo Ginsberg, che è stato amico di Bob Dylan e di Patti Smith e ha pure fatto dischi con una band di fattoni come i Fugs, non resta confinato in quella stagione e continua ad essere fonte di ispirazione anche per gruppi attuali, come i Black Rebel Motorcycle Club di “Howl”.

La collocazione all’ “Idroscalo” è per caso un tributo al ricordo di quanto accaduto a Pasolini la notte tra l’1 e il 2 Novembre del 1975?
Sì ma non solo: l’Idroscalo sta a Ostia come Ostia sta a Roma, come Roma sta a New York… è insomma la periferia della periferia delle periferie. Per questo ho utilizzato la stele di Mario Rosati sul luogo del delitto come logo dei JBI, dove la “i” di “idroscalo” è scritta con la forma del monumento. Io come molti ragazzi cresciuti ad Ostia ho conosciuto Pasolini proprio a causa del fatto che era morto qui vicino. Poi, studiando la sua opera, ho imparato a conoscere il Pasolini vivo che mi interessa molto di più di quello morto. Ma per me la stele di Rosati non è legata solo a Pasolini, che pure amo moltissimo, è anche la statua ai piedi della quale mia zia Michela Mioni moriva di overdose nella scena finale di “Amore tossico” di Caligari. È un simbolo di cui mi sono appropriato in maniera un po’ anarchica, poi quando ci siamo incontrati, per fortuna Rosati è stato così generoso da dare la sua benedizione all’utilizzo che ne sto facendo.

Lei vive e opera nella realtà di Ostia, e a proposito di sociale, si rivede nel degrado descritto nell’ultima opera di Claudio Caligari “Non essere cattivo”?
“Non essere cattivo” è un gran film, sono orgoglioso e commosso che Claudio Caligari, trent’anni dopo “Amore tossico”, abbia scelto di tornare proprio a Ostia per consegnarci il suo testamento. Forse l’unico aspetto della Ostia anni ’90 che non mi convince è proprio quello della musica: manca per esempio il fenomeno delle Torrette, che era una terra di nessuno a metà fra le discoteche normali e i rave. Devo dire che negli ultimi anni, da “Romanzo Criminale” in poi, è nata una mitologia noir su Ostia che è sempre parzialmente esatta: la realtà è una zona d’ombra con tante di quelle sfumature di grigio che non basta un solo film a raccontarle. L’ultimo lavoro che ho fatto, il mese scorso, è stata la colonna sonora di “Sotto la sabbia” di Fausto Trombetta, un docu-film che indaga sull’alta incidenza di patologie tumorali a Ostia; sarà meno glamour di un film poliziesco ma la complessità della realtà è questa.

In che modo i suoi testi sono provocatori?
Non cercano mai di esserlo per forza, e rimango sempre stupito quando scopro che per molti lo sono. Anche la droga per me è un argomento quotidiano come qualsiasi altro, le mie canzoni sulla droga le ho fatte ma non voglio che diventi la mia bandiera, come le puttane per Fabrizio De André. Ecco, giusto di recente ho scritto una canzone intitolata “Come Fabrizio De André” che per qualcuno è un sacrilegio perché la paragonano a quella di Cristicchi su Biagio Antonacci. Ma prendere per il culo il “mito” di Biagio Antonacci è troppo comodo no? È come sparare sulla Croce Rossa. Questo è un paese di santi e di santini, e ogni laico ha in tasca il suo.

Cos’è per lei la protesta? Fabri Fibra per lei fa “musica di protesta”?
No, Fabri Fibra non fa musica di protesta se non altro perché non la fa nessuno, né io, né Caparezza, ma se è per questo non la fa più nemmeno De Gregori. Questo perché il valore aggregante della musica oggi è sceso così in basso che la sua influenza culturale è troppo scarsa. Certo ci sono musicisti militanti, e di ogni schieramento, ma per me una bella canzone individualista è sempre meglio di una brutta canzone politica. L’unica forma di protesta che conosco è il riscatto dato dalla “bellezza”: la nostra civiltà è dominata da tre valori: la ricchezza, il potere e la bellezza, e quest’ultima è l’unica in grado di continuare a fare invidia ai primi due, è tutto ciò che rimane ad un artista per essere socialmente rispettato.

Quali sono i suoi riferimenti musicali?
Tanti, troppi. Parlando delle origini citerei almeno Serge Gainsbourg e Lou Reed, ma in realtà non sono uno di quelli che ascolta solo il genere che suona. Da adolescente ho avuto il periodo psichedelico, quello dei cantautori, quello metal, perfino quello dance. Tra gli strumenti che suono, oltre alla chitarra e al pianoforte uno dei miei preferiti è l’organo Farfisa, così ultimamente ascolto parecchi compositori lounge come Morricone o Piero Umiliani.

Secondo lei – ed è una questione sempre aperta – i cantautori devo essere considerati, come disse Fernanda Pivano, dei “poeti”? Ovvero, uno come Bob Dylan per lei meriterebbe il Nobel per la letteratura
Io scrivo sia canzoni che poesie, e conosco la differenza. Non è una questione di superiorità dell’una o dell’altra, è questione che non si può giocare a briscola con le carte francesi o a poker con le piacentine. Conosco un sacco di canzoni meravigliose e un sacco di poesie orrende. Una canzone non deve avere bisogno di essere “promossa” al rango di poesia. Non mi piace nemmeno la parola italiana “cantautore” perché è la somma matematica di “cantante” e di “autore”, sposta l’attenzione sulle frustrate velleità letterarie dei nostri maggiori; preferisco il francese “chansonnier”, che è un participio presente che mette in evidenza l’aspetto della performance. Comunque il Nobel è per la letteratura, non per la poesia, e la canzone per me è una forma di letteratura diversa dalla poesia, come la narrativa, il teatro, il fumetto. Non a caso Allen Ginsberg, per ritornare alla prima domanda, ha detto di Bob Dylan che “è riuscito a fare arte con un jukebox”, non con una chitarra. Quindi ben venga, anche se ormai ci spero poco, il Nobel a Dylan che senz’altro lo merita più di tutti; del resto dopo la nomination di Roberto Vecchioni a sto punto la voglio pure io.

Ignazio Gori

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